“Democristiani”, di Mimmo Nunnari: la storia d’Italia attraverso la DC

“Democristiani”, di Mimmo Nunnari, non è solo un libro sulla Democrazia Cristiana. È anche la storia dell’Italia e degli italiani che, dal dopoguerra fino ai primi anni ’90, hanno vissuto una vicenda politica di straordinario valore, purtroppo senza seguito. Ne parliamo con l’autore.

Nostalgia: perché oggi tante persone rimpiangono la DC?

R.: Qualche mese fa, alla morte di Pippo Baudo — simbolo di un’Italia di mezzo, l’Italia democristiana — fu chiesto a Giuseppe De Rita cosa pensasse della nostalgia per la DC. Lui spiegò che non si trattava di rimpiangere un partito in sé, ma uno stile e un modo di fare politica. Un modello capace di parlare all’Italia, rappresentare diversi segmenti della società e trasmettere un’identità nazionale tranquilla, lontana dalle divisioni e dall’odio. Paradossalmente, la nostalgia è più forte in chi aveva criticato la DC. La classe politica che venne dopo non si mostrò migliore, anzi. Come spiegava De Mita a Scalfari già negli anni Ottanta, destra e sinistra erano schemi mistificanti: oggi la vera dialettica è tra vecchio e nuovo.

Essere democristiani: un popolo, uno stile, una nazione

R.: Pierluigi Castagnetti, nella prefazione del libro, lo spiega bene. La DC era ramificata in tutto il Paese, spesso invisibile ma presente, perché era anche un popolo. “Democristiano” non era solo un’appartenenza politica, ma un modo di pensare e di vivere, basato su valori condivisi, rifiuto dell’estremismo e convinzione che per fare storia servisse solidità di progetto e servizio al bene comune. Come ricordava Moro, i democristiani possedevano intelligenza degli eventi, cioè intelligenza storica.

Cosa manca all’Italia di oggi?

R.: Manca l’afflato, la spinta emotiva, la volontà di animare qualcosa. Penso a quei piccoli gruppi di cattolici, guidati da De Gasperi, che crearono un partito capace di garantire stabilità e democrazia in un Paese appena uscito dal fascismo. Quel modello ha permesso all’Italia mezzo secolo di equilibrio, pace e democrazia. Oggi, in un’Italia confusa e senza identità, si ricordano più le esperienze fallite della sinistra post-comunista che i successi dei cattolici.

Mino Martinazzoli e la fine della DC

R.: Non so se la DC potesse salvarsi. La malinconia della sua fine si rifletteva nel carattere di Martinazzoli, uomo mite e onesto. Il dramma si riassume nelle parole pronunciate da De Mita il 26 luglio 1993 all’Eur: “Che Dio ti aiuti, Mino”. La DC cadeva sotto scandali, inchieste e calo dei consensi, apparentemente inarrestabile.

Tangentopoli: un colpo di Stato?

R.: All’inizio sembrava poter cambiare la storia italiana e estirpare la corruzione. Non fu così. I risultati furono disastrosi per la società civile, facendo percepire i giudici come gli unici interpreti di uno Stato quando la politica era delegittimata. Questo “vizio” politico-sociale l’Italia lo porterà sempre con sé.

L’occasione mancata

R.: Tangentopoli sembrava un’occasione per un “repulisti generale”, ma la rivoluzione sperata non avvenne. L’Italia cambiò, ma non in meglio. Piercamillo Davigo, magistrato del pool di Borrelli, lo ammette: fu un’occasione persa. Trent’anni dopo, la politica del protagonismo personale e un sistema corruttivo ancora più forte sono l’eredità di quegli anni.

Lato oscuro della vicenda

R.: Tra le vicende più curiose, il PCI-PDS, l’unico partito sfiorato dall’inchiesta e rimasto in vita, fu avvantaggiato ma non seppe approfittarne. La “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto fallì, aprendo la strada al ventennio di Berlusconi. Resta poi il mistero della valigetta di Raul Gardini: un miliardo di lire, destinazione ignota, lasciato come “ringraziamento” per benefici fiscali legati a Enimont. Mani Pulite resta così una vicenda controversa, simbolo di un’Italia che avrebbe potuto cambiare, ma non lo fece.

Ma allora… fu un golpe o no?’

R.: Non si può affermare con certezza; certo è che, se non fu un colpo di Stato, fu comunque un colpo allo Stato. Diede la spallata finale al vecchio sistema politico, ma lasciò in eredità un nuovo assetto che oggi fa rimpiangere la Prima Repubblica, anche a chi, come i postcomunisti, versa lacrime di coccodrillo per la fine della Dc.

Nella sua ricostruzione, Alcide De Gasperi e Aldo Moro sembrano due stelle polari: europeismo, responsabilità, servizio, senso dello Stato, visione. Sembra che l’epoca degli statisti sia finita, non se ne vedono più da decenni.

R.: L’ultimo statista, e allo stesso tempo l’ultimo democristiano, è Sergio Mattarella, il nostro presidente della Repubblica. Un cattolico che percepisce la politica come vocazione, come ha detto una volta padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica. Mattarella è l’erede della politica di Aldo Moro e del De Gasperi, la cui storia personale intrecciava politica e spiritualità. Ha ragione, sembra davvero finita l’epoca degli statisti. Bisognerebbe tornare a uomini come Moro e De Gasperi per riscoprire la vera politica, quella capace di costruire, un bene sempre più raro oggi. Ma temo sia impossibile. Basta guardare lo spettacolo avvilente che ci viene offerto ogni giorno: talk show, esibizioni cabarettistiche dei cosiddetti leader sui social, tra chi mangia, beve, offende, si contraddice, o mostra il proprio gatto o cane come un’influencer. Meglio lasciar perdere.

In un’epoca di leader solitari e partiti personalistici, crede sia ancora possibile formare una nuova classe dirigente con quello spirito comunitario e popolare della Dc?

R.: Non lo so francamente. Dico solo che vale la pena provarci, cercare un’idea nuova. La politica è oggi troppo degradata per non pensare a un nuovo inizio, a una stagione che punti alla rinascita civile e politica della nazione, come accadde quando De Gasperi e altri esponenti cattolici scrissero il manifesto Idee ricostruttive, sollecitati dall’allora assistente della Fuci Giovanbattista Montini, il futuro Paolo VI.

Senza dubbio oggi c’è urgenza di una politica buona.

R.: Ci sono vari tentativi: la rete di Trieste, fatta di amministratori locali e nata in occasione delle Settimane Sociali dei Cattolici; gli incoraggiamenti della Chiesa e dei vertici della Cei, che non sostengono partiti specifici ma esortano a una fede cristiana capace di incidere nella società, promuovendo valori che diano senso alla vita e aprano al futuro. La strada è giusta, forse ci vorrà tempo, ma bisogna ripartire dalla lezione di De Gasperi: “un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”.

In fondo, il suo libro è anche una riflessione sul futuro: la nostalgia non come rimpianto, ma come bussola.

R.: Esatto. Non si tratta di far rinascere un partito, che pure ha avuto grandi meriti nella storia repubblicana, ma di recuperare la tradizione politica del cattolicesimo italiano e metterla al servizio del Paese. Significa lavorare alla formazione di una classe dirigente autorevole, all’altezza; salvare un modo di pensare e servire la politica e la democrazia, come facevano i padri costituenti.

I rimpianti per la Dc sono inutili.

R.: Vero. La Dc non c’è più, e non serve il senno di poi per discutere se sia stato bene o male farla scomparire. Nel libro chiudo proprio su questo tema, con una riflessione di Ciriaco De Mita, una delle menti più lucide della politica italiana. In un’intervista disse: «Non so se la Dc è morta. Certo come partito, con riferimento a molte cose negative, è finita e, si potrebbe dire, meno male che è finita. Però so che la Dc non è stata solo una storia di errori ma anche un’esperienza culturale straordinaria; so anche che essa rimane. C’è un segmento forte della nostra comunità che fa riferimento a questa cultura. Saranno gli anni a dimostrare come questa realtà rimane, si conserva, si innova o si dissolve». Appunto, vedremo. Grazie per questa intervista.


di Francesco Graziano & Bruno Battista