Intervista al giornalista palestinese testimone diretto del massacro della sua famiglia e del popolo di Gaza. Da tre mesi in Italia per curare una ferita infertagli da un missile israeliano. A cura di Chiara Rivière
Wael Al-Dahdouh è «nato in mezzo ai problemi della gente di Gaza» e ha subito capito quale sarebbe stata la sua missione: mettersi al servizio delle persone. Non ha potuto farlo indossando un camice, suo sogno di bambino, ma con un casco e un giubbotto antiproiettile con scritto Press. «Quando ero giovane sognavo di diventare un medico, purtroppo però con l’occupazione israeliana non ne ho avuto la possibilità. Così ho scelto di diventare giornalista».
Wael Al-Dahdouh è capo della redazione nella Città di Gaza per l’all-news qatariota Al-Jazeera, per cui lavora dal 2004. La sua carriera giornalistica inizia però nel 1998, due anni prima dello scoppio della Seconda intifada contro l’occupazione israeliana, evento che il reporter ha seguito e documentato come corrispondente per l’emittente radiofonica Voice of Palestine.
Al-Dahdouh, l’appello all’Unione europea
Nelle parole del giornalista palestinese c’è il dolore del popolo di Gaza ma c’è anche l’appello a un’Unione europea che «può e deve fare di più». L’invito di Al-Dahdouh ai popoli dell’Ue è quello di «prendere posizione» di fronte a un’evidente violazione dei diritti umani, «diritti che l’Unione dice di avere come principi strutturali».
Il reporter non manca poi di dare voce ai pensieri dei palestinesi della Striscia, nei quali non c’è posto per le questioni politiche. Hamas, Fatah, l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), «sono percepiti solo come dei dettagli in confronto al genocidio che sta avvenendo», spiega Al-Dahdouh; e poi prosegue: «quello cui pensano i palestinesi non sono questi aspetti [politici, ndr], l’importante per loro è che finisca questo massacro».
Al-Dahdouh e il suo mestiere «così umano»
La preoccupazione maggiore a Gaza, al momento, riguarda il piano israeliano. Le aggressioni che Israele sta portando avanti in Siria, in Libano e negli altri Paesi limitrofi, mettono in guardia su un’eventuale «israelizzazione del Medio Oriente». «La riuscita o meno di tale piano – afferma il giornalista – dipenderà dagli sviluppi che ci saranno non solo in tutta l’area, ma in tutto il mondo».
Wael Al-Dahdouh racconta poi l’altro dramma di cui è stato testimone, quello della sua famiglia, che ha pagato il prezzo del suo mestiere che egli definisce «così umano» e che ha sempre «portato avanti con tanta professionalità ed equilibrio».
Accadde tutto il 25 ottobre 2023, quando Israele bombardò il campo profughi di Nuseirat uccidendo la moglie di Al-Dahdouh, la figlia di sette anni, il figlio di quindici e un nipote di appena un anno; e poi il 7 e 8 gennaio 2024, quando a morire sotto le bombe di un altro attacco aereo israeliano a Khan Yunis, nel Sud della Striscia di Gaza, furono rispettivamente il figlio ventisettenne Hamza – anch’egli giornalista – e due nipoti di trenta e ventisei anni.
Lo stesso Wael Al-Dahdouh il 15 dicembre 2023 è stato colpito da un missile mentre stava documentando un altro raid israeliano sulla scuola di Haifa, sempre a Khan Yunis, insieme al suo cameraman Samer Abu Daqqa, che ha perso la vita.

Nonostante tutto, Wael Al-Dahdouh decise di tornare immediatamente sul campo, «con tantissima professionalità e onestà, per parlare della sofferenza degli altri». Non è un caso che la sua storia, una storia di resistenza e resilienza, l’abbia consacrato a simbolo del massacro dei giornalisti a Gaza.
Il dolore di Gaza nelle parole di Wael Al-Dahdouh, l’intervista
A oggi, dopo più di un anno e mezzo di genocidio, di giornalisti ne sono stati uccisi oltre 220, più di quanti ne siano morti in entrambe le guerre mondiali e nei più recenti conflitti messi insieme. Lo stesso reporter palestinese racconta di come siano presi costantemente di mira dall’esercito israeliano e di come, in parallelo, non siano tutelati dalle organizzazioni preposte alla loro protezione.
Di tutto ciò Wael Al-Dahdouh parla in questa intervista intima ma allo stesso tempo universale. Per noi un monito a fare di più, come Unione europea ma soprattutto come esseri umani.
Riesce a raccontarmi quand’è stato il momento in cui è venuto a conoscenza dell’uccisione dei suoi familiari?
Ero in diretta a parlare di quello che stava accadendo a Gaza, delle ambulanze in giro, degli aerei che stavano bombardando. E a un certo punto mi sono trovato a parlare proprio del bombardamento della mia famiglia senza sapere che parlavo della mia famiglia, che era al centro di Gaza. Si era rifugiata in un posto [il campo profughi di Nuseirat, ndr] che l’esercito israeliano ci aveva detto essere un posto sicuro, avevano detto di andare lì e infatti sono andati tutti lì, ma purtroppo sono stati bombardati.
E poi cos’è successo?
A un certo punto mi chiama mia figlia, che è sopravvissuta, e ho subito capito che era successo qualcosa di grande. Così sono andato direttamente sul posto nonostante il pericolo, e ho visto che la situazione era molto più drammatica di quello che mi aspettavo. La casa dove era la mia famiglia, la mia grande famiglia, tutto il posto era completamente raso al suolo, non c’era più corrente, protezione, niente. C’era gente che cercava con la luce del cellulare di scavare con le mani e aiutare chi era rimasto sotto le macerie…
Dopo aver visto tutto questo, cosa le ha dato la forza di tornare subito sul campo?
Prima di tutto sapevo l’importanza del ruolo che stavo svolgendo. Ho capito che Israele voleva colpirmi personalmente colpendo la mia famiglia, e per me questa è stata una sfida grandissima. Ho capito che ho pagato il prezzo, più di così che cos’altro devo pagare? Della mia uccisione non me ne frega niente. Mia moglie, i miei figli, i miei nipoti, i miei parenti, hanno pagato il prezzo della mia professione, hanno sacrificato tantissimo, anche prima del 7 ottobre, essendo io sempre in giro. Alla fine ho capito che dovevo rispondere a questa sfida che mi ha lanciato Israele e per me l’unica risposta a questa sfida era continuare a fare il mio mestiere. Questo è il minimo che potessi fare nei confronti del sangue che è stato versato dalla mia famiglia.
Quindi tornare sul campo è stata per lei una forma di giustizia.
Sentivo che non potevo lasciare i miei familiari così, senza prezzo; e il prezzo per me era tornare sul campo. E alla fine, dopo ciò che mi è successo, ho capito che il mio ruolo di giornalista era un ruolo molto giusto, importante. Non abbiamo mai passato un momento così drammatico a Gaza, mai. Perciò anche la risposta doveva essere dura da parte mia. Ero in una situazione difficile, drammatica, perché avevo anche altri figli feriti che avevano bisogno di me, avevano bisogno di cure. Però mi sono chiesto: dov’è un posto sicuro a Gaza? Non esiste. Perciò, senza neanche pensarci e senza alcun dubbio, sono tornato a testimoniare. Nonostante tutto il mio dolore, ho deciso di tornare con tantissima professionalità e onestà a parlare della sofferenza degli altri. Questa per me è la cosa più importante. E penso di essere riuscito nel mio intento, grazie a Dio.
Pensa ci sia ancora fiducia, speranza nell’Occidente da parte dei palestinesi? Oppure ci vedono come nemici?
Chi sta vivendo quello che sta vivendo a Gaza, chi è sofferente, è chiaro che vorrebbe che tutto il mondo lo aiuti per tirarlo fuori da questa distruzione. Non avendo visto questa reazione da parte dei diversi Paesi nel mondo, è normale che i palestinesi sentano che tutti hanno partecipato, in un modo o nell’altro, a questo genocidio. Questo era particolarmente vero soprattutto all’inizio, adesso ci sono dei segnali che la situazione sta cambiando al livello parlamentare, di mobilitazione, ecc., perché oggettivamente non è più possibile stare in silenzio di fronte a quello che sta succedendo. Ciononostante sono dei segnali, e questo non può bastare di fronte a un tale massacro.
Forse è ancora troppo poco per un’Unione europea che fonda la sua politica estera e interna sui Diritti umani.
Il popolo palestinese a Gaza sperava in un mondo che effettivamente credesse nei diritti, nelle libertà, e si aspettava delle risposte molto più forti, risposte che nella realtà sono state molto diverse. E questo ha portato anche a un abbattimento nei confronti delle speranze che si nutrivano. Ci sono delle responsabilità nei confronti dell’umanità, dei diritti umani. Pensiamo che in particolare i giornalisti sono stati presi di mira, più di 220 giornalisti e le loro famiglie sono stati uccisi, sono stati distrutti i loro uffici, le loro case…
E anche per quanto riguarda loro, ciò che più dispiace è che gli organismi che si dovrebbero occupare di questi aspetti [della sicurezza e della tutela dei giornalisti, ndr] non lo fanno. E questo silenzio da parte di queste organizzazioni, da parte dei media, uccide esattamente come i missili israeliani che colpiscono le nostre case. È un silenzio che ci distrugge, ci si chiede dove siano i diritti che l’Ue, che i media, che le organizzazioni responsabili del giornalismo, ecc. dicono di portare avanti. E questo vuol dire solo una cosa: che questi organismi falliscono nel loro stesso ruolo, nel dare dignità a una professione di cui si fanno portavoce.
Se potesse mandare un messaggio all’Ue in questo momento, cosa direbbe?
Chiaramente l’Ue e i suoi popoli sono raggruppamenti molto grandi che fanno propri e parlano di diritti umani. Proprio perché è un gruppo così significativo, può effettivamente cambiare la situazione, se difende i diritti che dice di avere come principi. Per questo motivo appunto, proprio perché li ritiene suoi principi strutturali, deve fare di più. Anche perché può fare di più. L’Ue in questo momento è davanti a una prova della Storia, in cui deve prendere posizione. Altrimenti perderà la fiducia che i popoli hanno nei suoi confronti e nei confronti di questi stessi diritti.
Al momento è la voce che meglio rappresenta quella di tutti i palestinesi. Per questo le chiedo: qual è lo stato d’animo delle persone nella Striscia di Gaza che vivono ogni giorno sapendo che potrebbero morire da un momento all’altro o perdere le persone più care?
La gente a Gaza non ha tanta possibilità. Per chi non lo sapesse, la Striscia è un pezzo di terra molto piccolo: circa 365 km quadrati. Ha l’embargo completo da sempre, Israele controlla tutto quanto lì. Da sempre si soffre la fame, c’è sofferenza generale, perciò i palestinesi non hanno soluzioni, non possono fare niente. Anche quando Israele compie crimini di guerra, la gente cosa può fare? Alla fine resta la fede e il popolo crede che in qualche modo Dio possa risolvere il problema. Non hanno alternativa. C’è gente che trova tutta la famiglia uccisa, abbiamo più di 7000 famiglie che non sono più nell’archivio.
Dal punto di vista interno del popolo palestinese, come è stato percepito il ruolo politico di Hamas e dell’ANP?
Essendo un giornalista che si occupa di più dell’aspetto umanitario, preferisco non entrare in questi dettagli politici. Tuttavia, quello che è importante sottolineare è che in realtà, in queste attuali condizioni, questi sono percepiti solo come dei dettagli di fronte al genocidio che sta avvenendo. E infatti quello cui oggi pensano i palestinesi non sono questi aspetti, l’importante per loro è che finisca questo massacro. Quello cui pensano principalmente è il giorno dopo. Non hanno neanche la possibilità e il tempo di pensare ad altro al livello politico. L’aspetto principale è che non ci sono più differenziazioni ormai, non c’è distinzione tra Hamas, Fatah e chiunque altro. È una strage che appunto sta colpendo chiunque e lo si vede tutti i giorni, con attacchi alle tendopoli dei profughi, l’uccisione dei bambini, i giornalisti costantemente presi di mira…
Parliamo del suo lavoro. Ha sempre saputo di voler fare il giornalista o c’è stato qualche evento in particolare che le ha spinto a intraprendere questa professione?
Già dall’inizio amavo l’idea di fare il giornalista. E soprattutto credo in questo messaggio. Perché sono sempre stato vicino alle persone, sono nato in mezzo ai problemi della gente di Gaza e da quando ero proprio giovane, quindi da sempre, speravo di fare un mestiere che aiutasse chi ne ha bisogno. Amavo soprattutto l’idea di dare un servizio alle persone, in particolare in una zona come Gaza e la Palestina, dove c’è l’occupazione israeliana che uccide la gente e fa politiche per prendere i loro diritti, dove si vivono situazioni molto difficili come la troppa povertà, la disoccupazione, l’occupazione delle terre…
C’è tanto da raccontare.
All’inizio il mio sogno d’infanzia era diventare un medico. Però purtroppo l’occupazione israeliana non ci ha aiutato, per questo alla fine ho scelto di diventare giornalista.
Durante tutta la sua carriera si sarebbe mai aspettato che questa professione sarebbe stata quasi una condanna, considerato anche come Israele ha preso volontariamente di mira i giornalisti?
Certo, si sa che il giornalismo a volte è anche una professione pericolosa, soprattutto in una zona di occupazione come la nostra. Se in generale il pericolo per un giornalista è l’1%, a Gaza è il 10%. Però pensavo che fosse un pericolo normale che riguardasse me, i miei colleghi, pensavo anche di poter essere ucciso, le classiche preoccupazioni di un giornalista a Gaza. Ma non mi sarei mai aspettato che accadesse quello che è accaduto alla mia famiglia. Non ho mai pensato che arrivasse un momento in cui la mia famiglia sarebbe stata in pericolo, non mi sarei mai aspettato che arrivassero all’uccisione di tutta la mia famiglia. Credevo, con fede anche, che questo che sto facendo è un mestiere umano, credevo che il valore dell’umanità fosse ancora valido, e io personalmente, con tanta professionalità ed equilibrio, facevo il mio lavoro senza minimamente aspettarmi ciò che mi è successo.
Ho ascoltato un’intervista della giornalista Rula Jebreal in cui parlava di “israelizzazione del Medio Oriente”, parlava di un mondo arabo che non esiste più. Anche lei la pensa così o percepisce un sostegno da parte dei vicini Paesi arabi?
Chiaramente il piano israeliano va verso questo indirizzo [l’israelizzazione del Medio Oriente, ndr]. Ormai siamo arrivati a un punto in cui non si può trascurare qualsiasi piano Israele abbia. Lo si vede per esempio in Siria, in Libano e in tutte le aggressioni che Israele sta compiendo negli altri Paesi limitrofi. Però la domanda che ci dobbiamo fare è: possono effettivamente arrivare a questo? Naturalmente dipende anche dagli sviluppi che ci saranno in tutta l’area e non solo, vediamo come adesso è tutto legato. Per cui, per quanto riguarda la realizzazione di questo piano, dipenderà molto dagli avvenimenti che ci saranno in tutto il mondo.
Esisterà mai secondo lei uno Stato palestinese?
La risposta è simile rispetto a quella data in precedenza. Oggi ovviamente siamo di fronte a un genocidio che mira a cambiare tutto quello che c’è al momento, dalla geografia, alla storia, a tutto. La domanda principale è se Israele effettivamente potrà porre in atto questi piani e questo ha a che fare con le dinamiche regionali, ma anche in realtà con le risposte che i popoli dell’area daranno a questi piani.
