Il 10 ottobre verrà annunciato il vincitore del Nobel per la Pace. Tra i candidati più chiacchierati c’è Donald Trump, che rivendica di aver “concluso sette guerre” e di meritare il premio per gli Accordi di Abramo. Ma dietro i proclami restano macerie, accordi incompiuti e nuove tensioni.
Il 10 ottobre, come ogni anno, il mondo tratterrà il fiato per conoscere il nome del vincitore del Premio Nobel per la Pace. È il riconoscimento più carico di simbolismo: va a chi ha lottato per la fratellanza fra i popoli, la democrazia, i diritti umani. Eppure, tra i candidati più discussi del 2025, spicca un nome che suona come una provocazione: Donald Trump.
L’ex presidente americano, oggi di nuovo alla Casa Bianca, si considera un “campione di pace”. Lo ha ribadito dal podio dell’Assemblea generale dell’Onu: «Ho concluso sette guerre», ha dichiarato, fra gli applausi dei suoi sostenitori e lo sconcerto dei diplomatici. Un’affermazione già di per sé discutibile, ma che Trump rilancia spesso come se fosse una verità scolpita nella storia.
Il suo nome compare tra le segnalazioni al Comitato di Oslo, presentate da almeno quindici personalità politiche, tra cui la deputata repubblicana Elise Stefanik, l’ex consigliere alla sicurezza Mike Waltz, e l’ex segretario all’Interno Doug Burgum. Tutti convinti che il presidente abbia favorito la pace “fra Russia e Ucraina”.
A sostenerlo anche figure internazionali quanto meno controverse: Benjamin Netanyahu, oggi sotto mandato d’arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra, e la giurista israeliana Anat Alon-Beck, che lo elogia per “l’impegno nel rilascio degli ostaggi a Gaza”. Dall’Asia all’Africa arrivano ulteriori proposte: dal premier cambogiano Hun Manet, all’armeno Nikol Pashinyan, fino all’azero Ilham Aliyev e al congolese Félix Tshisekedi.
La prima è quella che più ama sbandierare: gli Accordi di Abramo, firmati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein. Trump li definisce “il miracolo della Casa Bianca”, ma la verità è che oggi quell’intesa vacilla. Dopo i raid israeliani su Gaza e l’uccisione dei negoziatori di Hamas, gli Emirati minacciano di sfilarsi, e nessun altro Paese arabo ha accettato di aderire.
C’è poi la presunta pace tra Israele e Iran. Il 22 giugno gli Stati Uniti hanno bombardato i siti nucleari iraniani, e il giorno dopo Trump ha annunciato su Truth Social un “cessate il fuoco totale e concordato”. Peccato che Teheran non abbia mai confermato nulla e che l’ayatollah Khamenei abbia promesso “vendetta”.
In Asia, l’ex presidente si attribuisce il merito di aver fermato il conflitto tra Thailandia e Cambogia per il controllo dei templi di confine. «Ho chiamato i premier e imposto una tregua», ha scritto. Ma Bangkok e Phnom Penh si accusano ancora a vicenda di violazioni.
Ha poi proclamato la fine della tensione tra India e Pakistan, dopo una breve fiammata di violenze in Kashmir. Ma il premier indiano Narendra Modi ha smentito: «Gli Stati Uniti non hanno avuto alcun ruolo. È un risultato raggiunto dai nostri eserciti».
Trump rivendica anche la pacificazione tra Armenia e Azerbaigian, sancita l’8 agosto alla Casa Bianca con la firma di un accordo sul Nagorno-Karabakh. L’intesa, che assegna a una società americana la gestione di un corridoio commerciale chiamato “Via di Trump”, è vista dagli analisti come un’operazione economica più che diplomatica.
A giugno, poi, ha annunciato un “accordo storico” fra Congo e Ruanda. In realtà si tratta di una tregua già tentata più volte e mai rispettata. Gli Stati Uniti, in cambio, hanno ottenuto l’accesso privilegiato alle miniere di cobalto congolesi. Appena una settimana dopo, i ribelli dell’M23 hanno ripreso gli attacchi.
Nel suo elenco Trump inserisce anche Serbia e Kosovo, vantandosi di aver evitato una “grande guerra europea”. In realtà, il conflitto tra i due Paesi non è mai riesploso, e la missione di pace resta saldamente nelle mani della Nato e dell’Unione Europea.
Curiosamente, Trump non include mai il suo unico accordo reale: quello firmato con i Talebani nel 2020. Quell’intesa doveva chiudere la guerra in Afghanistan, ma portò al disastroso ritiro americano e al ritorno del regime islamista a Kabul. Una pagina che il presidente preferisce dimenticare, scaricando la colpa su Biden.
Durante la campagna elettorale aveva promesso: «Metterò fine alla guerra in Ucraina in 24 ore». Un sogno a cui nessuno ha mai creduto. Mosca e Kiev non hanno accettato alcuna mediazione americana, e la guerra continua. Nel frattempo, Trump ha promesso nuove forniture di armi a Zelensky, a patto che “l’Europa paghi il conto”.
Su Gaza, la sua posizione è ancora più controversa: ha proposto di far amministrare la Striscia dagli Stati Uniti per costruire una “Gaza Riviera” e deportare due milioni di palestinesi nei Paesi vicini. Una violazione aperta del diritto internazionale che però ha entusiasmato Netanyahu.
Quando Alfred Nobel istituì il premio, lo fece per compensare il senso di colpa per l’invenzione della dinamite. Scrisse nel testamento che il riconoscimento doveva andare a chi favoriva «la fraternità tra le nazioni e la riduzione degli eserciti».
Negli ultimi anni, il Nobel per la Pace è stato assegnato a Barack Obama, all’Unione Europea, a Martti Ahtisaari, all’Onu contro le armi chimiche, a Juan Manuel Santos per la pace in Colombia, ai dissidenti di Russia, Bielorussia e Iran. Figure che, pur tra contraddizioni, hanno cercato la pace reale, non quella proclamata sui social.
Eppure Trump, nel suo stile, rilancia. A settembre ha annunciato la “riforma” del Pentagono: il Dipartimento della Difesa tornerà a chiamarsi Dipartimento della Guerra. Ha anche reintrodotto la pena di morte a Washington DC, abolita da mezzo secolo.
Un gesto simbolico che sembra la perfetta sintesi del suo paradosso: l’uomo che vuole il Nobel per la Pace e allo stesso tempo vanta di essere il più “forte comandante in capo della storia americana”.
Il verdetto del Comitato di Oslo arriverà il 10 ottobre. Ma, qualunque sia il vincitore, una cosa è certa: se l’obiettivo del premio era ricordare al mondo che la pace non è propaganda, il solo fatto che Trump sia tra i candidati dimostra quanto quella lezione sia stata dimenticata.