ROMA – In fondo, anche la guerra ha un prezzo. E chi lo paga, prima o poi, vuole sapere dove vanno i soldi. O meglio: come farli fruttare. È lo spirito – freddamente pragmatico – che aleggia sulla Ukraine Recovery Conference, la quarta edizione di un vertice internazionale che il 10 e 11 luglio porta a Roma, nel cuore dell’Eur, il futuro dell’Ucraina in formato business.
Sede dell’evento è il centro congressi La Nuvola, location futuristica per un summit che guarda oltre le macerie. In agenda: appalti, progetti, capitali, riforme e investimenti. In platea: 3.500 partecipanti, oltre 100 delegazioni, 40 organizzazioni internazionali e più di 2.000 aziende, di cui circa 500 italiane. Il messaggio è chiaro: l’Ucraina non è solo una causa umanitaria, è anche – e sempre di più – un’opportunità economica.
L’apertura dei lavori è affidata al ministro Antonio Tajani, a Giorgia Meloni, alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen e al presidente Volodymyr Zelensky, che parteciperà anche alla call geopolitica parallela organizzata dal duo Macron-Starmer per discutere della “forza dei volenterosi”, la task force di Paesi pronti a intervenire nel dopoguerra.
Ma mentre la diplomazia si esercita a distanza su piani militari e strategie future, nella capitale italiana si firma, si tratta, si pianifica. I numeri sono da capogiro: 400 miliardi di dollari il costo stimato della ricostruzione, tra scuole, ospedali, strade, reti digitali, centrali energetiche. E la corsa è già cominciata.
L’Italia ci prova. Vuole esserci, vuole contare. Le 500 imprese iscritte alla conferenza ne sono la prova. Da Enel a Webuild, da Leonardo a piccole realtà del manifatturiero, dell’agritech e dell’edilizia, l’obiettivo è entrare nei capitolati, siglare intese, stabilire contatti diretti con amministratori ucraini presenti al Forum. Perché, come recita uno dei mantra non scritti dell’evento, “chi ricostruisce l’Ucraina, ricostruisce anche la propria economia”.
Ma non è solo una questione di business. O almeno, non soltanto. Il governo italiano vuole usare il vertice per ribadire una posizione politica: non abbandonare Kiev e contemporaneamente pilotare la transizione verso la pace. Meloni – tra i leader più espliciti nel sostegno al presidente ucraino – giocherà la carta della credibilità: “Aiutare l’Ucraina oggi – ripeterà nel suo intervento – è costruire la sicurezza dell’Europa di domani”.
Dietro le dichiarazioni ufficiali, però, si celano anche frizioni e scetticismi. Molti Paesi – Italia compresa – iniziano a fare i conti con una stanchezza bellica che si traduce in tagli, rallentamenti, dubbi. Ecco perché si moltiplicano le iniziative “complementari”, come quella di Macron e Starmer: mettere in piedi una “forza volontaria” di peacekeeping per il giorno dopo. Un modo per dire: prepariamoci a ogni scenario, anche alla fine della guerra.
Intanto, Roma si trasforma in hub diplomatico e industriale. Nei panel si parlerà di “capitale umano” e di “adesione europea”, ma l’attenzione sarà tutta concentrata sulle tavole rotonde economiche, gli incontri B2B, le piattaforme digitali create per far dialogare enti pubblici e imprese. Non mancheranno i colossi della finanza internazionale – dalla Banca Mondiale al Fondo Monetario – pronti a monitorare, finanziare e indirizzare il fiume di denaro che si prepara a inondare l’Ucraina postbellica.
E sarà proprio su trasparenza e legalità che si giocherà parte della partita. Perché gli investitori vogliono garanzie, le imprese vogliono certezze, e le istituzioni europee vogliono evitare che la ricostruzione diventi una giungla di appalti senza controllo. In questo senso, l’Italia – con la sua esperienza nei cantieri pubblici e nei fondi PNRR – potrebbe offrire competenze chiave.
In sintesi: la Conference di Roma è molto più che un evento. È un banco di prova politico, economico e perfino morale per l’Europa. È la prova che la guerra, oggi, si combatte anche nei saloni dei convegni, tra presentazioni PowerPoint e incontri riservati. E che la pace, se mai arriverà, dovrà passare anche da qui: da contratti firmati, finanziamenti sbloccati, progetti realizzati.
E forse è giusto così. Perché tra le rovine, la speranza ha bisogno di fondamenta. E di chi le sappia costruire davvero.