Un algoritmo che pensa al posto tuo, ti risparmia la fatica del clic e ti dà la risposta prima ancora che tu abbia posto davvero la domanda. Potrebbe sembrare una comoda innovazione, se non fosse che – dietro la facilità dell’intelligenza artificiale – si sta consumando uno dei più gravi strappi tra Big Tech e informazione da quando esiste internet.
Il caso esploso nelle ultime ore riguarda Google e i suoi riassunti IA, noti come Ai Overviews, ormai attivi anche in Italia. La funzione, disponibile da marzo, è integrata nel motore di ricerca e si presenta come una sintesi automatica delle informazioni più rilevanti in cima alla pagina dei risultati. Il problema? Quei testi sono costruiti con contenuti altrui, estratti da testate giornalistiche senza consenso, e mostrati in un formato che annulla la necessità di cliccare sui link originali.
Un meccanismo che gli editori definiscono senza mezzi termini “predatorio”. E che ora è stato ufficialmente denunciato alla Commissione europea. A muoversi è stata l’Independent Publishers Alliance, una coalizione di media indipendenti europei, decisa a chiedere conto all’Antitrust Ue di pratiche ritenute sleali e potenzialmente distruttive per l’intero ecosistema dell’informazione.
La logica è semplice e devastante: Google utilizza l’intelligenza artificiale per assemblare risposte, senza rimandare al contenuto originario se non in forma accessoria. Il risultato? Il lettore legge il riassunto, si fa un’idea, chiude il browser. Nessuna visita, nessun banner caricato, nessun abbonamento potenziale. Ma intanto Google monetizza, perché in cima a quegli snippet – dal maggio 2024 – sono comparsi anche annunci pubblicitari.
Il documento presentato a Bruxelles è un j’accuse dettagliato: “Google sta sfruttando impropriamente contenuti giornalistici per alimentare l’IA, danneggiando in modo irreversibile il nostro traffico e i nostri ricavi”, si legge. Gli editori non possono nemmeno opporsi senza subire un ulteriore danno: se tentano di bloccare la raccolta dei propri contenuti per le risposte IA, vengono penalizzati anche nei risultati normali del motore. Una gabbia digitale da cui è difficile uscire.
“È come se un’edicola prendesse i nostri articoli, li fotocopiasse, li affiggesse fuori dalla vetrina e poi ci impedisse di vendere i giornali”, sintetizza un editore francese coinvolto nella protesta.
I numeri confermano l’emorragia. Secondo Similarweb, nel solo 2025 Business Insider ha perso il 55% del traffico da Google, HuffPost il 40%, The Washington Post il 37%, CNN il 28%. Tra i 50 principali siti di news globali, ben 37 hanno registrato cali importanti proprio da quando è partita l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei risultati. Uno studio di Ahrefs ha stimato che oltre il 60% delle ricerche oggi non produce alcun clic: l’utente ottiene tutto dalla pagina di ricerca.
A peggiorare il quadro, si aggiunge l’impossibilità tecnica di negoziare o limitare l’uso. In teoria, in Europa il “text and data mining” – cioè l’estrazione automatica di dati dai siti – è consentito solo per fini scientifici o se non è stato attivato un opt-out tecnico. Ma gli editori che tentano di esercitarlo finiscono tagliati fuori dall’indicizzazione. Un cortocircuito perfetto.
E mentre l’Unione europea esamina la denuncia, la posizione di Google resta ferma e rassicurante: “L’intelligenza artificiale aiuta gli utenti a esplorare nuovi contenuti. Generiamo miliardi di clic ai siti ogni giorno”. Per l’azienda, i cali sono spiegabili con fattori esterni, come la stagionalità o le fluttuazioni negli interessi degli utenti. “Non c’è alcuna correlazione diretta con Ai Overviews”, dicono.
Una difesa che molti giudicano debole. Anche perché il trend è trasversale e riguarda testate di ogni genere, da quelle locali ai giganti dell’informazione globale. Un effetto Google mai visto prima, che coincide con un momento critico per il mondo dell’editoria: tagli, fusioni, crollo dei ricavi pubblicitari e difficoltà a far crescere gli abbonamenti digitali.
Per questo la protesta si allarga. Alla denuncia si sono uniti anche il Movement for an Open Web e il gruppo Foxglove, con un appello anche all’Autorità per la concorrenza britannica. In parallelo, negli Stati Uniti proseguono le cause contro l’uso dei contenuti da parte dell’IA. Il caso più emblematico resta quello del New York Times contro OpenAI e Microsoft.
Ma è sul fronte europeo che si gioca ora la partita più concreta. In gioco non c’è solo il rispetto del copyright, ma la sopravvivenza economica e culturale dell’informazione indipendente. Lo ha detto chiaramente Luciano Daffarra, tra i massimi esperti di diritto d’autore internazionale. “La Ue ha le leggi, ma non gli strumenti per farle valere contro i giganti del web. E alla fine – dice – dovrà piegarsi al principio del fair use americano. Un principio che nobilita con un nome elegante quello che, in Europa, è un furto”.
A oggi, nessun intervento concreto è stato ancora annunciato dalla Commissione europea. Ma se il trend continua, la domanda è una sola: quando anche i grandi quotidiani smetteranno di apparire nei risultati, di cosa vivrà il giornalismo?