Elly Schlein resta segretaria del Partito democratico, ma l’assemblea nazionale le consegna un referto politico severo, di quelli che non si archiviano con una nota stampa. I numeri parlano chiaro e fanno rumore: su quasi mille aventi diritto, solo 225 delegati votano a favore della relazione della segretaria, mentre 36 scelgono l’astensione. Un dato che, al netto delle letture benevole, certifica un disagio profondo nel corpaccione del partito e una richiesta esplicita: meno gestione solitaria, più collegialità.
La giornata nasce sotto il segno della tensione. Il nodo non è tanto la linea politica in senso stretto, quanto il metodo. La minoranza interna – quella che guarda con sospetto all’operazione di ricucitura con Stefano Bonaccini – è pronta a giocare una carta pesante: un contro-documento politico, alternativo a quello preparato dal responsabile organizzazione Igor Taruffi, pensato per suggellare l’ingresso dell’ex governatore emiliano nella maggioranza del partito. Sarebbe stata la fotografia plastica di una spaccatura, messa nero su bianco. Un passaggio che avrebbe trasformato l’assemblea in un congresso mascherato.
La minaccia, raccontano più fonti, è arrivata chiarissima sul tavolo della segreteria. Lorenzo Guerini e Graziano Delrio fanno sapere che il limite è vicino, che forzare la mano significherebbe rompere definitivamente un equilibrio già fragile. A quel punto Taruffi innesta la retromarcia. Il documento politico salta. Si vota soltanto la relazione della segretaria. Una scelta tattica per evitare il botto, ma che non evita l’effetto politico.
Perché i riformisti, a quel punto, decidono di astenersi. Non un voto contro, ma un segnale altrettanto eloquente. E non sono soli. Anche il correntone che fa capo a Dario Franceschini – con Andrea Orlando e Roberto Speranza – mostra un malumore che va oltre la dialettica interna. È proprio quell’area, storicamente decisiva negli equilibri del Pd, a non gradire l’apertura alle “truppe” di Bonaccini, vissuta come un’operazione non condivisa fino in fondo, calata dall’alto e gestita più come una necessità numerica che come un vero percorso politico.
Il paradosso è tutto qui: Schlein prova ad allargare la sua maggioranza, ma finisce per irritare chi, fino a ieri, ne era stato uno dei pilastri. Il risultato è una segretaria che formalmente incassa il via libera, ma politicamente si ritrova più sola. E i numeri lo certificano senza possibilità di appello. Duecentoventicinque voti favorevoli su quasi mille aventi diritto non sono una base solida: sono una minoranza che regge per inerzia, non per convinzione.
Nel Pd c’è chi prova a minimizzare, parlando di assemblea “non decisiva” o di passaggio tecnico. Ma dietro le quinte il giudizio è molto più netto. Quelle astensioni non sono neutrali: sono un messaggio. Dicono che una parte consistente del gruppo dirigente non si riconosce più in una gestione percepita come troppo personalizzata, troppo centrata sulla figura della segretaria e poco attenta ai meccanismi di mediazione che, piaccia o no, hanno sempre tenuto insieme il partito.
Il riferimento, nemmeno troppo implicito, è alla stagione iniziale di Schlein, segnata da scelte identitarie forti e da una leadership costruita più sull’investitura popolare delle primarie che sulla paziente tessitura interna. Una forza all’inizio, diventata ora un limite. Perché il Pd, al netto delle dichiarazioni di rinnovamento, resta un partito di correnti, di equilibri, di pesi e contrappesi. Ignorarli significa esporsi a logoramenti continui.
Il caso Taruffi è emblematico. Il documento politico che avrebbe dovuto celebrare l’ingresso in maggioranza di Bonaccini si trasforma in un boomerang prima ancora di essere discusso. La sua semplice esistenza accende gli animi, mobilita la minoranza, costringe la segreteria a fare marcia indietro. È il segno di un partito che non accetta più decisioni prese in cerchie ristrette e poi portate in assemblea come atti dovuti.
Sul tavolo resta una questione di fondo: chi comanda davvero nel Pd di oggi? Formalmente Schlein, politicamente un mosaico di sensibilità che chiede di essere ascoltato. Il correntone di Franceschini, in particolare, non è disposto a fare da spettatore. L’astensione sulla relazione è una scelta ponderata, non un incidente. Serve a ricordare che senza quell’area non esiste una maggioranza stabile e che ogni apertura a Bonaccini deve passare da un confronto vero, non da un’operazione di vertice.
Il messaggio che arriva dall’assemblea è quindi duplice. Da un lato, nessuno vuole far saltare il banco oggi. La minaccia di una spaccatura viene ritirata all’ultimo miglio, il contro-documento resta nel cassetto. Dall’altro, però, la segretaria viene messa di fronte a una realtà difficile da aggirare: così non basta. La linea può anche essere condivisa su singoli temi, ma il metodo no. E nel Pd, il metodo è sostanza.
Elly Schlein esce dall’assemblea ancora in sella, ma con un capitale politico ridotto. Non c’è un’alternativa pronta, non c’è un colpo di mano, ma c’è una richiesta che attraversa il partito come una corrente sotterranea: più ascolto, più collegialità, meno decisioni solitarie. Ignorarla significherebbe preparare la prossima crisi. Accoglierla, invece, vorrebbe dire accettare che la stagione dell’investitura plebiscitaria è finita e che, nel Pd, si governa solo se si tiene insieme il puzzle.
Per ora, Schlein resta. Ma l’assemblea dem ha messo agli atti una verità scomoda: la segretaria non è più il centro naturale del partito. E quando un segretario smette di esserlo, ogni voto diventa un avvertimento.







