Epstein, nuove mail riaprono il caso: «Trump sapeva delle ragazze». E il fratello: «Ora emerga tutta la verità»

Donald Trump

«Spero e credo che queste nuove informazioni possano essere utili a chiarire le circostanze dell’omicidio di mio fratello». Mark Epstein lo ripete da anni, ma stavolta le sue parole – raccolte da Repubblica – arrivano mentre la Camera statunitense pubblica un nuovo blocco di documenti che riporta il caso del finanziere pedofilo al centro dello scontro politico americano. Perché nelle email rese pubbliche dai deputati democratici compaiono riferimenti diretti al presidente Donald Trump, a ciò che avrebbe saputo e a ciò che avrebbe taciuto. È materiale che non cambia la sostanza delle accuse, ma che riaccende una vicenda mai davvero chiusa, tra sospetti, omissioni e una promessa tradita: la pubblicazione integrale di tutti i file federali sul caso Epstein, promessa fatta da Trump in campagna elettorale e mai mantenuta.

Mark non ha mai creduto alla versione ufficiale del suicidio. Non quando la prima autopsia lo confermò, non quando l’amministrazione Trump mostrò alle telecamere le immagini del carcere, non quando la Casa Bianca definì “risolto” uno dei casi più oscuri degli ultimi decenni. «Jeffrey non aveva mai accennato all’idea di farla finita – ripete da anni –. Era concentrato sulla sua strategia legale, sui modi per difendersi, non certo sul suicidio».

La morte del finanziere, impiccato nel 2019 al Metropolitan Correctional Center di New York – ribattezzato “Guantanamo a Manhattan” – è ufficialmente un gesto volontario. Ma da subito il crollo simultaneo delle telecamere, le guardie addormentate e il caos dei registri hanno reso impossibile spegnere le teorie alternative. Con la pubblicazione delle nuove mail, le domande tornano a moltiplicarsi.

In una delle comunicazioni più delicate, datata 2 aprile 2011, Epstein scriveva alla sua complice Ghislaine Maxwell: «Voglio che tu comprenda che il cane che non ha abbaiato è Trump. La vittima ha passato ore nella mia casa con lui, ma non è mai stato menzionato dal capo della polizia». La Casa Bianca ha confermato che la “vittima” citata era Virginia Giuffre, la giovane abusata dal principe Andrea che si è tolta la vita lo scorso aprile. Secondo Trump, «non c’è nulla di nuovo», perché la stessa Giuffre aveva dichiarato di non aver mai subito comportamenti inappropriati da parte sua.

Non è l’unico riferimento. In un’altra email del 31 gennaio 2019, indirizzata allo scrittore Michael Wolff, Epstein afferma: «Trump ha detto che mi ha chiesto di dimettermi dal club di Mar-a-Lago, ma non sono mai stato membro. Ovviamente sapeva delle ragazze, poiché ha chiesto a Ghislaine di smettere».

La Casa Bianca liquida la vicenda definendola «un’operazione per distrarre dalla responsabilità dei democratici nello shutdown». Il presidente ha reagito con toni duri: «I Democratici stanno cercando di tirare fuori di nuovo la bufala di Epstein. Non ci saranno distrazioni».

Ma il problema, per Trump, è che questa volta lo scontro non resta confinato al dibattito politico. I deputati democratici dell’Oversight Committee hanno diffuso circa 23 mila pagine di documenti, mentre alcuni repubblicani – in rotta con il presidente – hanno aderito alla richiesta di rendere pubblici tutti gli atti ancora segreti dell’inchiesta dell’FBI. L’ingresso in Congresso della nuova deputata democratica Adelita Grijalva ha dato la spinta definitiva: con la sua firma, la Camera sarà costretta a votare la petizione che chiede la completa desecretazione dei file.

Dentro quei documenti potrebbe esserci molto più di un dettaglio. Epstein aveva costruito per decenni un sistema di sfruttamento di minorenni, reclutate spesso in contesti di povertà e portate nelle sue proprietà di New York, Palm Beach e dell’isola ai Caraibi. Un mondo di feste, jet privati, traffici e complicità in cui si muovevano uomini d’affari, politici, celebrità e membri dell’aristocrazia europea. «Jeff è un tipo fantastico – dichiarava Trump nel 2002 –. Gli piacciono le donne belle quanto piacciono a me, forse un po’ più giovani».

La loro amicizia era documentata: sette voli condivisi sul jet privato del finanziere, feste a Mar-a-Lago, serate nei locali più esclusivi di Manhattan. Poi, la rottura nel 2004, dopo una gara immobiliare a Palm Beach in cui Trump superò all’asta l’offerta di Epstein per una villa dell’imprenditore Abraham Gosman. È lo stesso presidente, anni dopo, a raccontare di aver «allontanato Epstein per comportamenti volgari», frase che molti hanno interpretato come un tentativo tardivo di prendere le distanze.

Il caso Epstein è un paradosso politico e giudiziario. Una prima condanna nel 2008 gli era costata solo 13 mesi di carcere grazie a un patteggiamento controverso. Poi, nel 2018, un’inchiesta del Miami Herald aveva riaperto tutto, fino al nuovo arresto e alla morte nel 2019. Da allora, ogni rivelazione ha acceso nuovi sospetti.

«Il cane che non ha abbaiato», come scriveva Epstein, è ciò che oggi alimenta la richiesta di verità. Il nome di Trump compare nei documenti, non come protagonista di abusi, ma come uomo che “sapeva”. Un’informazione che, sommata ai suoi ripensamenti sulla desecretazione dei file, alimenta il dubbio che il presidente abbia voluto mettere un freno per ragioni politiche o personali.

Intanto, le nuove email rivelano anche i tentativi di Michael Wolff di suggerire a Epstein come «incastrare Trump» o, al contrario, «proteggerlo per metterlo in debito». Un gioco ambiguo che, nei palazzi di Washington, sta diventando materia infiammabile.

Il punto fermo, oggi, è solo uno: il Congresso dovrà decidere se rendere pubblici tutti i file segreti. Se il voto dovesse passare, potrebbero emergere dettagli nuovi sulla rete di complicità, sulle coperture, sulle omissioni e sulla morte del finanziere.

Mark Epstein aspetta da anni questo momento. E in un passaggio della sua intervista lo riassume così: «Jeffrey non aveva paura della verità. Sono altri, semmai, ad averne paura».