Gaza, l’odore della terra bruciata: la nuova strategia per cancellare un popolo

Noi viviamo in un tempo in cui la verità è impopolare. Non perché sia nascosta. Ma perché è irricevibile. È una verità fatta di carne e sangue, di bambini col ventre aperto, di donne sepolte vive sotto le macerie, di uomini senza più patria né volto. E intorno a questa verità c’è il silenzio. Il silenzio imbellettato dell’Occidente, il silenzio diplomatico dell’Europa, il silenzio interessato dell’impero. Un silenzio colmo di parole vuote, come “preoccupazione”, “moderazione”, “diritto alla difesa”. È il silenzio più osceno di tutti, perché pretende di non essere tale.

Israele ha presentato il suo piano, il suo nuovo scempio, e lo ha chiamato “Carri di Gedeone”. Come sempre, un nome biblico a dare dignità al massacro, a trasformare l’occupazione in missione, la devastazione in diritto, la punizione collettiva in atto divino. Ma non c’è nulla di divino in tutto questo. C’è solo la logica implacabile della forza che si fa legge. Il piano è semplice, lineare, atroce: annientare. Spostare un intero popolo,  più di due milioni di persone  come bestiame da una parte all’altra di un confine, in un  recinto, distruggendo tutto ciò che resta dietro di loro. Creare un governo di transizione americano,  e tenere i militari nelle terre conquistate, non per proteggere, ma per impedire il ritorno del terrore. Ma chi decide cos’è il terrore? Chi stabilisce dove finisce la sicurezza e comincia l’apartheid?

Le parole si sono consumate. Anche quelle più gravi – genocidio, crimine di guerra, violazione del diritto internazionale – non fanno più rumore. Sono diventate etichette appiccicate con mano tremante, mentre i droni solcano il cielo sopra Rafah e i bulldozer cancellano le ultime tracce delle case palestinesi. Ma non è più questione di diplomazia, né di diritto. È una questione di umanità. O meglio, della sua assenza.

Siamo di fronte a un progetto dichiarato di pulizia etnica. E il mondo, quel mondo civile, colto, progressista, che si indigna per un post sui social e commemora ogni tragedia passata con un hashtag, ora distoglie lo sguardo e perde la voce. I governi europei si dicono “preoccupati”, ma rifiutano qualsiasi azione concreta. Non si oppongono, non sospendono i trattati, non fermano la vendita di armi, non richiamano ambasciatori. Anzi, lasciano che le bombe continuino a piovere, che il grano resti fuori dai confini della fame, che i soccorritori muoiano a decine, senza nemmeno più una tenda da campo dove portare i feriti. Perché l’Europa è vecchia, e la vecchiaia ha paura del coraggio, ma non dell’ingiustizia. L’ingiustizia si sopporta, si gestisce, si archivia.

La Palestina, oggi, è un laboratorio della crudeltà contemporanea. È il luogo in cui si sperimenta una nuova forma di dominio: non più il dominio dell’uomo sull’uomo, ma del sistema sull’umanità. È il punto esatto in cui la politica cede alla pura ingegneria del controllo, dove ogni atto – anche il più feroce – diventa “strategia”. E così lo sfollamento forzato diventa “libertà di azione operativa”. La fame diventa “strumento di pressione”. L’occupazione, “prevenzione del ritorno del terrore”.
Non si ha più nemmeno bisogno della propaganda: basta l’indifferenza. Basta che i giornali cambino titolo, che le televisioni mostrino un’altra tragedia, che l’opinione pubblica dimentichi per l’ennesima volta.

Ma io non dimentico. Io vedo i bambini mutilati che si trascinano tra le rovine, vedo gli occhi vuoti delle madri che raccolgono brandelli di carne dal suolo, vedo gli anziani portati via su carri trainati da asini. Li vedo, perché sono la mia gente. Non per sangue, non per religione, non per passaporto. Ma per condizione umana. Perché  ogni uomo che ancora conservi un briciolo di coscienza deve stare lì, dove il dolore è più grande.

E allora io vi parlo, da qui, dalla mia posizione privilegiata che non ha nulla da perdere. Io vi accuso. Accuso Israele, il suo governo fanatico, il suo esercito d’occupazione. Accuso l’Europa della sua codardia, della sua complicità. Accuso l’America del suo silenzio calcolato, della sua alleanza cieca. Ma soprattutto, accuso noi tutti, popolo occidentale viziato, distratto, colmo di parole e privo di memoria. Perché Gaza è anche responsabilità nostra. Perché ogni bomba che cade porta la nostra firma, ogni embargo che strangola porta la nostra approvazione tacita, ogni campo profughi che si allarga è costruito con i nostri fondi.
È il momento di mostrare ciò che non si vuole vedere. È il momento di scrivere ciò che non si può dire.
È in atto un genocidio, una pulizia etnica, un crimine di massa, un progetto coloniale che non ha nulla a che vedere con la sicurezza, e tutto a che fare con la supremazia. Oggi non è più il tempo delle analisi. È il tempo della denuncia. È il tempo di scegliere da che parte stare.

Non c’è neutralità possibile quando un bambino muore di sete sotto le macerie, quando un convoglio di aiuti viene rifiutato perché “non conforme”, quando le bombe colpiscono le scuole, le chiese, gli ospedali. Non si è mai neutrali davanti a un massacro. Chi tace, acconsente. Chi tergiversa, partecipa. Chi si dice “preoccupato”, ma non agisce, è già complice.
Oggi non scrivo da giornalista. Scrivo da uomo. E da uomo, sento il dovere di gridare: fermatevi. Fermatevi prima che sia troppo tardi. Fermatevi prima che l’ultimo respiro di Gaza diventi anche il nostro fallimento definitivo. Fermatevi, se in voi resta ancora qualcosa di umano. Altrimenti, sarà troppo tardi. E sarà terribile.

di Francesco Villotta