Il cardinale ombra: chi è davvero Robert Prevost, l’americano che potrebbe diventare papa

di Luca Arnaù

Non ha l’eloquenza teatrale dei predicatori da palcoscenico, né la gestualità magniloquente degli uomini da Curia. Il cardinale Robert Francis Prevost cammina piano, parla a bassa voce, sorride poco. Ma nel silenzio di certi corridoi, proprio i passi più leggeri sono quelli che lasciano l’impronta più profonda. Da quando Francesco lo ha scelto come prefetto del Dicastero per i vescovi, nel gennaio 2023, è lui – con pochi fidatissimi – a suggerire, filtrare, selezionare i nuovi vescovi del mondo. In Vaticano, questo equivale a esercitare il cuore del potere. Non gridato, ma concreto.

Classe 1955, nato a Chicago, Prevost è agostiniano. Ma molti dicono che avrebbe potuto essere un eccellente gesuita. Ha una spiritualità asciutta, rigorosa, votata al discernimento. Parla con calma, ascolta molto, agisce solo quando ha chiaro l’intero disegno. La sua esperienza non è quella del curiale puro: ha trascorso quasi vent’anni in Perù, dove è stato missionario, poi superiore dell’ordine e infine vescovo di Chiclayo. È lì, tra la polvere delle parrocchie rurali e le comunità più povere, che ha imparato cosa vuol dire “avere l’odore delle pecore”.

«Mi considero ancora missionario», racconta oggi dalla sua stanza in Vaticano. «La mia vocazione, come quella di ogni cristiano, è l’essere missionario, annunciare il Vangelo là dove uno si trova». E se oggi quel “dove” è la Curia romana, poco importa. «Certamente la mia vita è molto cambiata: ho la possibilità di servire il Santo Padre, di servire la Chiesa oggi, qui. Una missione molto diversa da quella di prima ma anche una nuova opportunità di vivere una dimensione della mia vita che semplicemente è stata sempre rispondere “sì” quando ti chiedono un servizio».

Nell’ufficio del Dicastero si lavora sui dossier dei candidati all’episcopato. Si vagliano profili, si leggono rapporti, si costruiscono mappe umane. E Prevost, senza far rumore, ha già cominciato a imprimere la sua linea: vescovi pastori, più che burocrati; uomini vicini al popolo, non alla carriera. «Papa Francesco ha parlato delle quattro vicinanze: vicinanza a Dio, ai fratelli vescovi, ai sacerdoti e a tutto il popolo di Dio. Non bisogna cedere alla tentazione di vivere isolati, separati in un palazzo, appagati da un certo livello sociale o da un certo livello dentro la Chiesa», spiega.

Il principio guida è semplice, ma radicale: l’autorità è servizio. «L’autorità che abbiamo è per servire, accompagnare i sacerdoti, per essere pastori e maestri. Spesso ci siamo preoccupati di insegnare la dottrina, il modo di vivere la nostra fede, ma rischiamo di dimenticarci che il nostro primo compito è insegnare ciò che significa conoscere Gesù Cristo e testimoniare la nostra vicinanza con il Signore. Questo viene prima di tutto: comunicare la bellezza della fede, la bellezza e la gioia di conoscere Gesù. Significa che noi stessi lo stiamo vivendo e condividiamo questa esperienza».

È su queste basi che Prevost ha accolto una delle svolte più significative del pontificato di Francesco: la presenza delle donne nel processo decisionale sulle nomine episcopali. Per la prima volta, tre donne – due religiose e una laica – sono entrate nel collegio che discute i dossier dei candidati vescovi. «In diverse occasioni – racconta – abbiamo visto che il loro punto di vista è un arricchimento. Molte volte coincide con quello degli altri membri, ma altre introduce una nuova prospettiva, un contributo importante nel processo».

E non si tratta di una scelta di facciata. «Penso che la loro nomina sia ben più di un semplice gesto da parte del Papa per dire che adesso ci sono delle donne anche qui. C’è una partecipazione vera, reale e significativa, che loro offrono alle nostre riunioni».

Con questo stile, fatto di concretezza più che di proclami, il cardinale americano ha conquistato una posizione chiave nella Chiesa del presente. E forse, anche in quella del futuro. Non appartiene a nessuna cordata, ma sa parlare con tutti. Non ha nemici dichiarati, ma neanche seguaci fanatizzati. È un mediatore. E nei giorni che precedono un Conclave, questo può essere decisivo.

Lo si dice spesso “papabile” quando non fa paura a nessuno. Ma Prevost è qualcosa di più: è il custode di un modello di Chiesa che Francesco ha voluto e che ora ha bisogno di continuità. La sua figura incarna il passaggio dal pontificato dell’urgenza missionaria a quello della maturazione ecclesiale. Non sarà la scelta che infiamma le piazze. Ma potrebbe essere quella che mette d’accordo le urne.

In fondo, anche questo è un modo per restare missionari: non dove ti porta il cuore, ma dove ti chiede di andare la Chiesa. E rispondere, ancora una volta, semplicemente: sì.