Nel cuore dell’Illinois, a Chicago, nel 1955 nasceva Robert Francis Prevost. Sessantanove anni dopo, quel ragazzo di origini irlandesi è diventato Leone XIV, il primo Papa statunitense della storia. Ma se lo Spirito Santo lo ha chiamato al soglio di Pietro, la burocrazia americana non ha perso tempo a ricordargli che, sulla carta, resta pur sempre un cittadino degli Stati Uniti. E dunque, come ogni bravo contribuente, anche lui dovrebbe dichiarare i redditi. Papa o non Papa. Il paradosso è servito.
La normativa fiscale americana è tra le più invasive al mondo: gli Stati Uniti, a differenza della quasi totalità degli altri Paesi, tassano i cittadini non in base alla residenza, ma in base alla cittadinanza. Una regola che può sembrare astratta, ma che in questo caso diventa un boomerang geopolitico: perché quel cittadino americano è oggi anche il capo di uno Stato estero, la guida spirituale di oltre un miliardo di persone, e titolare – almeno simbolicamente – di patrimoni ecclesiastici miliardari.
Il caso è diventato incandescente quando il Washington Post ha sollevato il problema: “Prevost, in quanto cittadino Usa, resta soggetto alle regole dell’IRS, compreso l’obbligo di dichiarazione annuale dei redditi anche da fonti estere”. Le parole pesano come pietre. E subito dopo è arrivata la mossa politica: il deputato repubblicano Jeff Hurd ha presentato una proposta di legge, l’Holy Sovereignty Protection Act, per escludere formalmente il Papa dagli obblighi fiscali imposti ai cittadini americani all’estero. “Dobbiamo impedire che un nostro connazionale, chiamato a guidare la Chiesa, sia costretto a scegliere tra la fede e la cittadinanza”, ha dichiarato Hurd.
Una norma a metà tra il cavillo e l’atto di fede. Perché in teoria, oggi, Leone XIV sarebbe tenuto a compilare una serie di moduli per il fisco americano, a partire dal celebre 1040, il modulo per la dichiarazione dei redditi individuali. Con tutto ciò che ne consegue: trasparenza sui compensi, rendicontazione dei fondi vaticani a lui intestati, inclusa la gestione dell’Obolo di San Pietro. Un incubo giuridico che nessun Papa aveva mai affrontato. Né Wojtyła, né Ratzinger, né Bergoglio. Nessuno di loro aveva un passaporto statunitense. Prevost invece sì. E non lo ha mai restituito.
Anzi: dopo l’elezione, ha anche rinnovato il documento peruviano, ottenuto quando era vescovo a Chiclayo, ma senza rinunciare a quello americano. In teoria, dunque, Leone XIV ha oggi tre cittadinanze: quella vaticana (automatica), quella peruviana e quella statunitense. Ed è proprio quest’ultima a creare il corto circuito. Perché, a rigor di legge, ogni cittadino Usa che guadagna più di una certa soglia annuale – anche all’estero – è tenuto a dichiarare tutto. E il Papa, sebbene non riceva uno stipendio in senso classico, è pur sempre titolare di ruoli e responsabilità che potrebbero, sulla carta, generare redditi tassabili.
A rendere la vicenda ancor più grottesca è il fatto che in Vaticano il tema sia ormai discusso ai massimi livelli. Non tanto per il rischio reale di vedersi recapitare una cartella esattoriale, quanto per le implicazioni simboliche: l’idea di un Papa considerato fiscalmente “inadempiente” agli occhi della burocrazia americana rischia di essere uno smacco, un boomerang d’immagine. Soprattutto se a sollevarlo, nei prossimi mesi, saranno media conservatori, nemici giurati di un pontefice che – a torto o a ragione – è considerato progressista.
Del resto, l’ironia del destino è amara: proprio un pontificato nato all’insegna della sobrietà e della diplomazia si ritrova ora imbrigliato nei meccanismi di una legge pensata per chi evade i capitali alle Cayman, non per chi regna tra le mura leonine. Eppure la norma non fa eccezioni. E l’IRS, l’agenzia delle entrate americana, non è nota per la sua clemenza.
L’iniziativa di Hurd, dunque, è diventata una corsa contro il tempo. Perché se il Papa decidesse di mantenere il passaporto Usa, e il Congresso non intervenisse, la pressione fiscale resterebbe formalmente attiva. A meno che Leone XIV non faccia ciò che nessun Papa ha mai fatto prima: rinunciare ufficialmente alla cittadinanza americana, dichiarando al mondo che, tra Dio e il Tesoro, ha scelto Dio. Un gesto potente, certo. Ma anche pericoloso, vista la quantità di rapporti che il Vaticano intrattiene con Washington: dagli aiuti internazionali alle nomine diplomatiche, dai fondi alle visite di Stato.
Ecco perché nei corridoi vaticani si respira una certa tensione. Il Papa, finora, ha scelto la via del silenzio. Ma qualcuno a porte chiuse racconta che la questione lo abbia colpito nel vivo. Perché è vero che l’uomo Prevost ha un animo da missionario, ma è altrettanto vero che Leone XIV non è sprovveduto. E sa che ogni passo, ogni firma, ogni omissione può diventare uno strumento politico nelle mani sbagliate.
Intanto, tra le colonne di San Pietro e le pagine del Federal Register, si consuma una battaglia surreale: un Papa inseguito da moduli fiscali, un Parlamento che cerca una scappatoia e un Paese che, pur avendo dato i natali al pontefice, ora rischia di metterlo in imbarazzo planetario. Perché una cosa è certa: nessuno aveva previsto che il primo pontificato a stelle e strisce sarebbe inciampato non nella teologia, né nella diplomazia, ma nella contabilità.