Siamo a pochi giorni dalle elezioni regionali in Campania, Puglia e Veneto. Non c’è suspense, non c’è battaglia: c’è un copione che scorre come una replica già vista. In Campania e in Puglia il centrosinistra dovrebbe vincere, mentre in Veneto la riconferma del centrodestra appare scontata come il sorgere del sole. Nel frattempo, la sinistra ha perso l’Umbria e ha perso in Calabria — dove è uscita dalle urne come un corpo frantumato, disorientata, senza visione, senza nemmeno la forza simbolica della sconfitta. Non evapora soltanto nei sondaggi: evapora nella vita reale, nei territori che un tempo rappresentava e che oggi fatica persino a riconoscere.
Non è un caso locale, non è un incidente regionale. È l’immagine di una crisi più profonda, globale, che parte dalle periferie, dai paesi dell’entroterra, dai quartieri dove il disagio non trova più parole ma solo rabbia. È una sinistra che smette di essere comunità e diventa sigla, che perde il popolo e trattiene i dirigenti, che si accorge del problema solo quando gli scrutatori chiudono le urne. Ma il vero crollo non avviene nelle notti elettorali: avviene nei mesi in cui non diventa alternativa, in cui non fa opposizione, e in cui nessuno ascolta ciò che si muove sotto la superficie.
C’è un momento nella storia in cui le idee non finiscono perché sconfitte, ma perché cambiano natura. Non vengono rovesciate da un colpo di Stato, ma da un lento slittamento di senso. Ciò che un tempo nasceva per ribaltare l’ordine esistente, oggi lo amministra. Questo è il destino che ha colpito la sinistra nel mondo occidentale: non è semplicemente in crisi, è diventata sistema. E quando un’idea nata per essere alternativa si trasforma in garanzia dell’ordine, smette di esistere come forza storica.
Per questo oggi la sinistra non perde: evapora. Non viene battuta nei dibattiti televisivi o alle urne – è molto più grave: è stata rimossa dal desiderio collettivo. In Francia, milioni di cittadini non si sentono più rappresentati dai socialisti, ma dalla protesta populista o dal silenzio del non voto. In Germania, la SPD è al governo ma è minoranza nel Paese reale, quello dei lavoratori poveri, dei territori abbandonati, delle aree industriali in declino. Nel Regno Unito, il Labour ha perso i collegi operai che deteneva da 100 anni. In Italia, il Partito Democratico sopravvive come partito urbano dei ceti medio-alti, ma ha perso il legame con le periferie, i giovani precari, gli esclusi dal lavoro stabile. Non è solo una disfatta elettorale: è un esodo antropologico.
Tutto è cominciato quando, tra gli anni Novanta e Duemila, di fronte all’avanzare del neoliberismo globale, la sinistra ha scelto di non opporsi, ma di integrarsi. Blair nel Regno Unito, Schröder in Germania, Jospin in Francia, Prodi e D’Alema in Italia: tutti hanno accettato che il mercato fosse il nuovo sovrano dell’ordine mondiale, che la competitività fosse la nuova morale, che i vincoli economici fossero più reali della giustizia sociale. In cambio, la sinistra ha ottenuto riforme civili — fondamentali e storiche — ma ha sacrificato i diritti sociali che costituivano il suo fondamento. Ha difeso il matrimonio egualitario, ma non il salario minimo. Ha promosso l’inclusione culturale, ma non la redistribuzione della ricchezza. Ha parlato di diritti, ma ha smesso di parlare di lavoro.
Così è avvenuta la metamorfosi: la sinistra ha smesso di essere classe, ed è diventata ceto. Non rappresenta più la maggioranza sociale, ma una minoranza istruita. Non vive nelle fabbriche o nei quartieri popolari, ma nei centri storici delle città. Non ascolta il disagio, lo interpreta. Non guida la rabbia, la analizza. Il risultato è che le masse disorientate non la seguono più. Non perché siano diventate “di destra”, ma perché non riconoscono più se stesse in un linguaggio percepito come distante, tecnico, astratto.
Ed è qui che la destra identitaria ha trovato lo spazio per imporsi. Non offre soluzioni strutturali, ma offre riconoscimento emotivo. Non difende i diritti, ma promette protezione. Mentre la sinistra calcola gli effetti del debito, la destra nomina la paura. Mentre la sinistra discute di transizione ecologica nei forum internazionali, la destra parla di bollette agli elettori impoveriti. La sinistra è diventata il partito dell’astrazione morale, la destra quello della concretezza emotiva.
Il problema non è che la sinistra ha perso alcune elezioni: è che ha perso la sua funzione storica di generare un’idea alternativa di società. Ha rinunciato a contestare l’ordine neoliberale, accettando un ruolo subalterno: mitigare gli effetti, rendere il capitalismo più accettabile, più sostenibile, più verde. Ma un capitalismo “sostenibile” non elimina la disuguaglianza, la organizza meglio. La domanda da cui tutto dipende è: se la sinistra non vuole cambiare il modello, perché dovrebbe esistere?
Il nodo, oggi, è tornare a nominare ciò che il linguaggio politicamente corretto ha censurato: la parola “classe”. La parola “sfruttamento”. La parola “povertà”. Il lavoro non è un concetto statistico, è un destino umano. La disuguaglianza non è un indicatore economico, è una ferita esistenziale. Milioni di persone non chiedono bonus o incentivi, chiedono la dignità di contare qualcosa nel patto sociale. Se la sinistra non riparte da qui, è destinata a sopravvivere come apparato, ma a scomparire come orizzonte.
E tuttavia, qualcosa si muove. Nelle piazze di Berlino e Madrid, nei movimenti giovanili che parlano di “giustizia climatica e sociale”, negli scioperi che nascono nei magazzini digitali del nuovo capitalismo globale, appare una generazione che non vuole amministrare l’esistente, ma cambiarlo. Non cerca identità ideologica, ma giustizia materiale. Non chiede protezione, chiede dignità. Non chiede compatibilità, chiede futuro.
La sinistra non è morta. È in attesa di un nuovo inizio. Non può più essere la sinistra dei tecnocrati, degli ex socialisti diventati manager, delle conferenze sulla sostenibilità sponsorizzate da multinazionali. Deve diventare di nuovo carne e popolo, conflitto e speranza. Non per tornare al passato, ma per costruire l’unica alternativa possibile all’impoverimento globale e alla democrazia amministrata.
Perché, al di là delle etichette e dei partiti, esiste una domanda che nessun algoritmo potrà cancellare: chi difenderà il destino umano nell’epoca del mercato assoluto?
La sinistra potrà rinascere solo se saprà rispondere a questa domanda. E se saprà tornare, finalmente, a parlare non ai cittadini astratti, ma agli uomini e alle donne di una società che chiede non soltanto diritti, ma giustizia. Non soltanto libertà, ma dignità. Non soltanto sopravvivenza, ma futuro.
di Francesco Vilotta







