Il ritorno alla vita dei rapiti: “Non sanno come ricominciare”. Le prime ore di libertà tra abbracci e ferite profonde

Dopo 735 giorni di prigionia, gli ultimi venti ostaggi vivi sono finalmente tornati a casa. Hanno rivisto le famiglie, le fidanzate, le mogli. Hanno potuto lavarsi, dormire in un vero letto, respirare aria libera. Eppure, raccontano medici e parenti, “ancora devono tornare davvero. Non sanno come ricominciare a vivere”.

Tra loro c’è Avinatan Or, 32 anni, rapito al festival Nova insieme alla compagna Noa Argamani, la cui foto mentre veniva trascinata via in moto dai terroristi è diventata il simbolo del 7 ottobre 2023. Noa era stata liberata nel giugno 2024 durante un blitz dell’Idf, mentre Or è rimasto in isolamento totale per due anni nella Striscia di Gaza centrale, senza contatti con altri ostaggi e quasi sempre affamato. “Ha perso tra il 30 e il 40% del peso corporeo”, spiegano i medici. Dopo il rilascio, ha chiesto solo una cosa: stare da solo con Noa. Lei, su Instagram, ha scritto una frase semplice e struggente: “Prima sigaretta insieme dopo due anni”.

Le storie di Evytar, Guy e Avishai

Evyatar David, 24 anni, rapito anche lui al rave del deserto insieme all’amico d’infanzia Guy Gilboa-Dalal, è apparso in un video diffuso da Hamas due mesi fa: scheletrico, costretto a scavarsi una fossa in un tunnel buio. “Ha subito abusi fisici e psicologici”, racconta il padre, Avishai David. “La fame e la sete sono state le prove più dure. Dopo quel video, Hamas ha continuato a privarlo del cibo. Hanno cercato di spezzarlo.”

Guy, oggi ricoverato al Rabin Medical Center, vive circondato dalla sua famiglia. “Venivano legati e costretti a stare seduti per ore, con sacchi neri sulla testa, senza bere,” riferiscono i parenti. In prigionia, raccontano, si dissetava con acqua sporca prelevata da un barile usato per lo sciacquone. Lunedì, dopo il rilascio, gli hanno portato la sua chitarra e una sciarpa del Maccabi Haifa, la sua squadra del cuore.

Il caso di Matan

Tra i casi più gravi anche quello di Matan Angrest, 22 anni, soldato dell’Idf catturato dopo che i miliziani avevano attaccato il suo carro armato. Picchiato fino a perdere i sensi, ha riportato ustioni e gravi danni alla mano destra.
“La prima notte da uomo libero l’ha passata dormendo con i genitori”, ha raccontato la madre.

La dottoressa Eliakim-Raz, del Soroka Hospital, descrive le difficoltà del ritorno alla normalità: “Molti non hanno chiuso occhio per tutta la notte. Dopo due anni sottoterra, anche una sola visita medica al giorno è un traguardo. Quello che desideriamo è restituire loro il controllo.”

Il peso del ritorno

Gli specialisti israeliani parlano di una riabilitazione lunga e incerta, dove la libertà è solo il primo passo. I corpi sono segnati dalla fame e dalle ferite, ma le cicatrici invisibili – la paura, la disumanizzazione, l’assenza di luce e voce – sono le più difficili da curare. Come ha detto uno dei medici coinvolti nei primi soccorsi, “non basta che siano vivi: devono tornare individui”. Un compito che richiederà tempo, ascolto e, soprattutto, la possibilità di scegliere – finalmente – come vivere di nuovo.