La politica estera degli Stati Uniti non passa più da un sistema stratificato di apparati, funzionari, consiglieri, ambasciate e diplomazia multilivello. Nell’era del presidente Donald Trump, secondo quanto raccontato dal sito di analisi Politico, il potere reale si è concentrato nelle mani di una “cinquina” ristrettissima, cinque persone che hanno accesso diretto e continuo al presidente e che gestiscono in tempo reale i dossier più delicati del pianeta: dalla Russia alla guerra a Gaza, fino allo spettro di un possibile intervento in Venezuela. Un club chiuso, rapido, informale, senza troppi filtri. E soprattutto senza vere gerarchie interne, a eccezione di una sola: in cima c’è Trump.
I cinque su cui il presidente fa affidamento sono l’inviato Steve Witkoff, il segretario di Stato Marco Rubio, il vicepresidente JD Vance, il capo dello staff Susie Wiles e il capo del Pentagono Pete Hegseth. A questo nucleo, su richiesta dello stesso Witkoff, si è aggiunto anche Jared Kushner, genero di Trump, chiamato inizialmente per le trattative a Gaza e rimasto poi agganciato anche ai dossier sull’Ucraina. Sei figure, in pratica, che si muovono come una cabina di regia parallela, con la possibilità di decidere con velocità estrema e con un filtro minimo rispetto alle strutture tradizionali.
Il dato che colpisce davvero, nel racconto di Politico, è che in questo gruppo l’unico a possedere una reale esperienza diplomatica strutturata è Marco Rubio. È lui, il segretario di Stato, quello che più spesso deve ricucire i rapporti, rimettere in ordine le relazioni internazionali, spiegare agli alleati cosa è successo dopo che una frase, una presa di posizione o un’uscita improvvisa hanno creato scossoni. Gli altri arrivano da percorsi molto diversi: Steve Witkoff è un imprenditore immobiliare prestato alla diplomazia; JD Vance, vicepresidente, è l’uomo che più di tutti ha incarnato in questi mesi lo scontro frontale con l’Europa; Susie Wiles è la regista dell’apparato politico e organizzativo della Casa Bianca; Pete Hegseth, ex volto televisivo, guida il Pentagono in una fase in cui ogni scelta militare può avere effetti globali.
Il risultato è una squadra che non assomiglia a nessuna delle tradizionali architetture del potere americano. Non c’è un percorso classico che passa dal Dipartimento di Stato, dal Consiglio di sicurezza nazionale, dal Pentagono e poi arriva al presidente. Qui il flusso è rovesciato: tutto passa da Trump, tutto torna a Trump. Le informazioni si muovono in cerchi ristretti, le decisioni vengono prese a ritmo serrato, spesso prima che gli apparati abbiano il tempo di metabolizzarle.
La guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, le tensioni con la Russia e la partita, sempre calda, del Venezuela sono tutti dossier che si muovono lungo questa linea diretta. È una gestione che punta sulla velocità, sull’effetto annuncio, sulla forza politica del gesto improvviso. Ma è anche una gestione che espone continuamente la diplomazia americana al rischio dello strappo, dell’equivoco, dell’uscita incontrollata. Ed è qui che il ruolo di Rubio diventa centrale, quasi da “vigile del fuoco” permanente di una politica estera che spesso corre più veloce delle sue stesse conseguenze.
Dentro questo sistema si è inserito anche Jared Kushner. Non è un ritorno episodico: il genero del presidente, già protagonista di alcune delle più delicate manovre diplomatiche del primo ciclo trumpiano, è stato inizialmente chiamato per il dossier mediorientale legato a Gaza, ma è rimasto poi agganciato anche alle partite europee. Una presenza che racconta in modo plastico quanto, per Trump, il confine tra potere politico e affari di famiglia resti estremamente sottile.
Il tratto comune di questo gruppo non è l’esperienza istituzionale, ma la fedeltà personale. Non sono i tecnici ad avere in mano la cloche, ma i fedelissimi. Il rapporto diretto con il presidente vale più di qualsiasi posizione formale nei meccanismi dello Stato. È un modello che taglia fuori interi settori della macchina federale, riducendo l’intermediazione e aumentando, di conseguenza, il margine di imprevedibilità.
Secondo Politico, all’interno di questa cinquina non esistono vere gerarchie operative. L’unico capo riconosciuto è Trump stesso. Tutti gli altri si muovono sullo stesso piano, con competenze diverse e con pesi che cambiano a seconda del dossier. Un equilibrio instabile, nel quale la voce che riesce per prima ad arrivare al presidente può orientare decisioni che hanno effetti su equilibri globali.
È questo il punto più delicato di tutta la costruzione: la velocità decisionale viene pagata con una drastica riduzione dei contrappesi. La politica estera americana, che per decenni si è fondata su una catena lunga di valutazioni, analisi, filtraggi e mediazioni, oggi viene compressa in una stanza ristretta, dove contano soprattutto la fiducia personale e l’allineamento politico.
In questo scenario, Rubio appare sempre più come l’uomo costretto a trasformare in diplomazia ciò che nasce come impulso politico. Ogni volta che una mossa del gruppo produce uno strappo con un alleato, un’incertezza sui mercati o una tensione militare, il lavoro vero inizia dopo, quando bisogna spiegare, tradurre, aggiustare. Una dinamica che ribalta completamente il concetto classico di politica estera come costruzione lenta e paziente.
La “cinquina” di Trump è dunque il simbolo di un potere sempre più accentrato, sempre più personale, sempre meno mediato. Un sistema che può funzionare finché la velocità resta un vantaggio. Ma che espone gli Stati Uniti – e il mondo intero – al rischio di scelte prese in pochi, senza la rete di sicurezza che per decenni ha tenuto insieme la diplomazia americana.
Cinque persone, un presidente, e milioni di conseguenze che non aspettano mai.







