Il Carroccio propone un prelievo ispirato al modello spagnolo per finanziare la manovra, ma Forza Italia si oppone con forza. Patuelli (Abi) apre al dialogo, Giorgetti media, e Meloni resta a guardare.
La proposta è arrivata come un fulmine a ciel sereno e ha immediatamente diviso la maggioranza. Dopo giorni di silenzi e di cauti segnali di distensione tra governo e sistema bancario, la Lega ha deciso di rompere gli indugi: vuole tassare gli extraprofitti degli istituti di credito.
L’obiettivo dichiarato è raccogliere almeno cinque miliardi di euro da destinare a famiglie, commercianti e imprese, in vista della prossima legge di bilancio. Ma il modo in cui il Carroccio ha scelto di annunciarlo — parlando apertamente di “tassa” — ha scatenato un’ondata di reazioni indignate, a partire dagli alleati di governo.
Tutto nasce dalle parole del presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, che appena ventiquattro ore prima aveva aperto al confronto con l’esecutivo per valutare una forma di contributo volontario da parte delle banche. «Siamo disponibili a discutere», aveva detto, precisando però che gli istituti sono già soggetti a una doppia imposizione fiscale che porta l’aliquota complessiva al 55%. Una mano tesa, accolta con prudenza dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, pronto a lavorare a una soluzione “condivisa e sostenibile”.
Poi è arrivato Salvini, con la sua proposta politica: «Le grandi banche possono e devono dare un contributo concreto. È giusto che parte dei loro profitti record torni a chi lavora e produce». Secondo il leader della Lega, gli istituti di credito «hanno beneficiato dei rialzi dei tassi di interesse e delle politiche monetarie, e ora è il momento di restituire qualcosa al Paese reale».
La misura, messa a punto dal gruppo economico del partito, si ispira al modello spagnolo introdotto nel 2022 dal governo socialista di Pedro Sánchez, poi prorogato fino al 2027. Lì, la tassa colpisce gli istituti con ricavi da interessi e commissioni superiori ai 750 milioni di euro annui, con aliquote progressive dall’1% al 7%. Madrid prevede un gettito di circa 1,5 miliardi l’anno, ma il piano leghista punta a oltre tre volte tanto: cinque miliardi in un solo esercizio, destinati a coprire il costo della rottamazione delle cartelle e nuovi aiuti sociali.
Una proposta, tuttavia, che rischia di minare la coesione del governo. Antonio Tajani, vicepremier e leader di Forza Italia, ha subito eretto un muro. «Sono assolutamente contrario a ogni tassa sugli extraprofitti», ha dichiarato. «È roba da Unione Sovietica. Le banche possono contribuire, ma parlare di extraprofitti non ha alcuna base giuridica. Non esiste una definizione chiara di cosa sia un “profitto in eccesso”. Finché Forza Italia sarà al governo, tasse di questo tipo non ci saranno».
Un messaggio diretto non solo a Salvini ma anche a Giorgia Meloni, che su questo dossier si muove con cautela, consapevole dei rischi di spaventare i mercati e di compromettere il delicato equilibrio tra i tre alleati di governo.
Il ministro Giorgetti, più pragmatico, cerca di smorzare i toni. Sa bene che toccare il settore bancario, in un momento in cui i tassi di interesse e i margini di guadagno restano elevati, può avere conseguenze economiche e politiche. E rilancia un’ipotesi alternativa: prolungare nel 2027 l’accordo biennale sulle Dta, le imposte anticipate che hanno già fruttato allo Stato oltre tre miliardi. In pratica, un contributo indiretto ma strutturato, che eviterebbe lo scontro frontale con le banche e non apparirebbe come una tassa punitiva.
Nel frattempo, le opposizioni osservano la scena con una certa soddisfazione. Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato, ironizza: «La destra al governo è un colabrodo. Non riescono a mettersi d’accordo neanche quando si tratta di chiedere soldi alle banche». Dal Movimento 5 Stelle arriva invece un commento più duro: «Hanno fatto la campagna elettorale promettendo di colpire la finanza e ora litigano per chi deve difenderla».
Ma cosa significa davvero “tassa sugli extraprofitti”? In termini tecnici, si tratta di un prelievo temporaneo sugli utili eccezionali generati da un contesto favorevole — come l’aumento dei tassi deciso dalla Bce — e non da un incremento dell’attività produttiva o creditizia.
Il governo Meloni aveva già sperimentato qualcosa di simile nell’estate del 2023, con un decreto che prevedeva un’imposta straordinaria del 40% sugli utili eccedenti del 10% rispetto alla media del quadriennio precedente. La misura scatenò il panico sui mercati e venne rapidamente ridimensionata: le banche poterono scegliere di non versare il contributo in cambio di una riserva vincolata del 2,5% del patrimonio. Il risultato? Un gettito inferiore alle attese e molti malumori.
Ora la Lega riprova a cavalcare l’onda, puntando a un consenso popolare più che economico. In un momento in cui l’inflazione morde, i mutui pesano sulle famiglie e la crescita rallenta, colpire i “profitti delle banche” appare una scorciatoia elettorale efficace. Ma il rischio, come avverte il ministero dell’Economia, è che la misura venga percepita come una penalizzazione del risparmio e degli investimenti, oltre a incrinare la fiducia degli istituti nei confronti dello Stato.
Per ora Giorgia Meloni non prende posizione. Il dossier resta aperto e le trattative continueranno nei prossimi giorni. Il ministro Giorgetti dovrebbe incontrare i vertici dell’Abi per discutere una forma di contributo volontario o di estensione delle Dta, mentre la Lega insiste per calendarizzare la proposta in manovra.
Se l’obiettivo era mostrare compattezza, il risultato è stato l’opposto: l’ennesima crepa in un governo che, a poco più di due anni dal suo insediamento, continua a oscillare tra esigenze elettorali e prudenza economica. E nel frattempo, cinque miliardi restano una promessa tutta da verificare.