La scena si consuma quando è già passata la mezzanotte e l’aria di Brooklyn profuma di pioggia e attesa. Dentro il tempio massonico di Fort Greene la folla non guarda più i telefoni, non refresha compulsivamente. Si guarda negli occhi. Aspetta. E quando il dado cade, quando il nome di Zohran Mamdani prende fuoco sugli schermi, il suono non è un’esplosione: è un’onda lenta, profonda, un abbraccio collettivo che arriva fino alle finestre e si riversa in strada. Non sembra un’elezione, sembra la fine di un inverno lungo anni.
Mamdani sale sul palco come se avesse sulle spalle il peso di qualcosa più grande di lui. E lo ha. La Generazione Z lo guarda come non aveva guardato nessun leader finora. Ragazzi che non hanno mai visto Obama da adulti, che hanno conosciuto Trump prima ancora di credere nella politica, che a Biden hanno solo risposto con un’alzata di spalle. E quando lui prende il microfono e sorride di lato, è come se stesse rispondendo direttamente al passato.
«Donald Trump — dice — so che stai guardando. Turn the volume up.» Alza il volume, ho delle cose da dirti. È uno schiaffo calmo. Non rabbioso, non urlato. È un invito a sentirla tutta, questa vittoria. A guardarla negli occhi. Poi ecco New York che nei suoi propositi sarà «la luce in questo momento di oscurità». Per il Presidente non ci sono parole gentili, anzi. Lo chiama «despota» e ha aggiunge: «Se un luogo al mondo può mostrare come sconfiggere Donald Trump, è la città che lo ha creato». New York è «una città di immigrati, supportata da immigrati e da oggi guidata da un immigrato» ha concluso Mamdani: «Ascolta, Trump: per arrivare a uno di noi, dovrai passare attraverso tutti noi».
Questa notte non è solo la sua. È un referto politico. È un telegramma spedito da ragazzi con piercing e cappotti oversized, da studenti che dividono monolocali a Bushwick, da baristi, rider, programmatori e figlie di immigrati che si sono alzati presto per votare e sono andati a dormire tardi per festeggiare. È una pagina scritta da chi la città l’ha sempre abitata nei suoi interstizi, nelle lunghe notti di metropolitana e nelle piccole rivoluzioni quotidiane.
Fuori, Manhattan luccica come un gigante indifferente, ma qualcosa è cambiato nelle sue vene. I palazzi della finanza hanno gli allarmi accesi e gli analisti, per una volta, non hanno grafici pronti. Wall Street non capisce bene cosa sia successo: non è un tracollo, non è panico. È qualcosa di peggio per chi controlla il potere: è una domanda che pretende risposta. Mentre New York festeggia, lungo la East Coast arriva la conferma definitiva della notte-incubo per i repubblicani. Virginia: prima governatrice donna democrat, Abigail Spanberger. New Jersey: Mikie Sherrill si prende la guida dello Stato superando persino i numeri di Harris. Detroit elegge la sua prima sindaca. La Pennsylvania blinda per un decennio la sua Corte Suprema di orientamento democratico. È un messaggio coordinato, anche se nessuno lo ha orchestrato. È la geografia che parla.

A Mar-a-Lago raccontano di telefoni che squillano all’impazzata e di un televisore che resta acceso su un canale poi su un altro, poi su un altro ancora, finché non restano che gli sguardi tesi dei consiglieri. Trump tace per ore. È un silenzio strano, innaturale, come se persino lui avesse bisogno di cercare parole meno fragili.
Quando scriverà — tardi, molto tardi — lo farà scaricando colpa e destino, evocando sondaggi e nemici. Ma il punto è che stanotte non è lui a dettare il ritmo. È qualcun altro. Qualcuno che ha appena detto di “alzare il volume”.
Nel cortile fuori dal tempio, un ragazzo con una bicicletta legata al palo urla “We did it!” e piange come se avesse ricevuto una chiamata da casa. Una ragazza avvolta in una kefiah abbraccia un coetaneo con la kippah. È un fotogramma che vent’anni fa sarebbe sembrato impossibile, qui, nella città che ha vissuto le fiamme e la paura. E invece stanotte è normalità. La normalità di chi ha deciso che la paura non detta più legge.
Una signora anziana, cappotto lungo, sciarpa di lana rossa che cade sulle spalle, guarda i ragazzi ballare e scuote la testa sorridendo. «Li credevano apatici», dice piano. «Non hanno idea di chi siano». L’alba arriva lenta, come se volesse godersi lo spettacolo. New York è umida e lucida, la notte non sembra finita. Mamdani cammina verso un’uscita laterale, sorride timido, poi serio. Sa che comincia la parte difficile. Ma stasera non è tempo di analisi. Non ancora.
Stasera è il tempo di un giovane che guarda in camera e dice al presidente statunitense: alzati il volume, noi siamo qui. E per la prima volta dopo anni, qualcuno dall’altra parte non sa cosa rispondere.







