Nemmeno il tempo di chiudere lo spoglio, con l’ultima scheda che ancora scorre sotto gli occhi dei funzionari, e il centrodestra ha già aperto ufficialmente il cantiere politico più pesante della nuova stagione parlamentare: la riforma della legge elettorale. Una mossa attesa, e allo stesso tempo improvvisa, che agita il fronte della maggioranza e fa scattare l’allarme nell’opposizione.
Il messaggio, nei palazzi romani, è arrivato chiarissimo: risultati alla mano, Pd, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra e Italia viva sono convinti che un’alternativa al governo guidato da Meloni esista già nei fatti, almeno sul piano elettorale. E ritengono che la prova delle regionali abbia dato una dimostrazione concreta della forza potenziale di un fronte progressista unito. Se il campo largo resta compatto, sostengono, può vincere anche a livello nazionale.
È su questa convinzione che nasce il timore delle opposizioni: il governo starebbe lavorando a una revisione della legge per condizionare la sfida del 2027. Una lettura che Matteo Renzi sintetizza così, senza giri di parole: «La premier proverà a cambiare la legge elettorale. Perché con questa, lei a Palazzo Chigi non ci rimette più piede». Parole dure che trovano eco nel Pd, dove la preoccupazione è palpabile. Per il leader di Italia viva, la priorità della maggioranza sarebbe disinnescare il fattore unità: «Da Casa Riformista fino alla sinistra, quando siamo insieme vinciamo».
A confermare lo stato di agitazione nel fronte dem è Igor Taruffi, responsabile organizzazione del partito, che da settimane fa circolare una simulazione molto precisa: rispetto alle politiche del 2022, i collegi uninominali venuti fuori dalle ultime competizioni regionali sarebbero ribaltati, soprattutto al Sud. Dal Lazio alla Campania, dalla Puglia alla Sardegna, fino alla Basilicata, il risultato disegna scenari impensabili fino a pochi mesi fa. «È chiaro che Meloni voglia cancellare proprio quei collegi», sostiene Taruffi, «perché li perderebbe tutti».
Sul fronte del governo, però, la lettura è diversa. Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, non usa giri di parole ma apre, ufficialmente, la porta alla riforma: «Sulla legge elettorale nessun dogma. Puntiamo alla governabilità». E aggiunge un concetto chiave: «Se si votasse oggi, non ci sarebbe la stessa stabilità che abbiamo ora». Una frase che conferma una priorità politica chiara: intervenire prima della fine della legislatura.
Il progetto su cui si ragiona prevede l’eliminazione dei collegi uninominali e un ritorno al proporzionale, con un premio di maggioranza alla coalizione vincente che raggiunga il 40%. Un modello che potrebbe offrire alla maggioranza un vantaggio strategico, riducendo l’impatto delle alleanze territoriali. Restano dubbi nella Lega, che teme una riduzione del suo peso locale, e resistenze in Forza Italia, che frena soprattutto sull’idea di indicare il candidato premier sulla scheda.
È un’anticipazione del premierato, fermo per ora in commissione Affari costituzionali e legato comunque alla prossima legislatura. Ma è anche una mossa politica immediata, incisiva e potenzialmente divisiva. Nel campo largo, infatti, le sensibilità non sono affatto omogenee: Pd e Italia viva sono contrari, considerandola una riforma che favorirebbe il governo; mentre i Cinque Stelle, con il capogruppo Ricciardi, ribadiscono la linea storica del movimento: «Noi siamo per il proporzionale. Da sempre».
Antonio Tajani, da parte sua, guarda all’opposizione e gioca di sponda: «Anche tra loro ci sono favorevoli al proporzionale». Un modo elegante per segnalare un fronte non compatto e, al tempo stesso, per riportare il tema sul piano istituzionale.
Per ora è solo una prima bozza di scontro politico. Ma i numeri dello spoglio stanno accelerando i tempi. In attesa del verdetto delle urne, il dibattito sulla legge elettorale apre una nuova fase di tensione politica. E la sensazione, trasversalmente condivisa, è che la contesa sul sistema di voto sia appena iniziata.







