C’è un filo sottile, ma visibile, che unisce la nuova mossa propagandistica del Cremlino all’impasse della guerra in Ucraina: la Russia ha bisogno di nemici da esibire. E così, come in un triste remake da Guerra Fredda, Sergio Mattarella si ritrova in un elenco ufficiale di “russofobi” stilato dal ministero degli Esteri di Mosca.
Nella “colonna infame” virtuale, pubblicata online e passata quasi inosservata in Occidente, l’Italia ha un posto d’onore: oltre al presidente della Repubblica, ci sono Antonio Tajani e Guido Crosetto, ministri di Esteri e Difesa. La loro colpa? Aver pronunciato frasi pubbliche che qualsiasi storico definirebbe banali richiami alla memoria europea: difesa della pace, condanna delle aggressioni, comparazioni con le tragedie del Novecento.
Eppure, per la diplomazia russa, quelle parole equivalgono a una dichiarazione di guerra culturale. Nell’elenco datato 2025, Mattarella viene citato per la lectio magistralis tenuta a Marsiglia, in cui ricordava come l’invasione dell’Ucraina evocasse “il progetto del Terzo Reich”. Nel 2024, invece, la colpa fu il discorso a Montecassino: «La tragedia inumana del popolo ucraino ci richiama a un rinnovato impegno nella difesa della libertà». Parole che a Mosca sono state bollate come “blasfeme”, come se ricordare la storia fosse diventato un crimine internazionale.
Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri e ormai vera influencer di regime, ha trasformato l’episodio in uno show personale. Non paga di lanciare proclami sulla “lotta alla russofobia”, ha diffuso su Telegram uno sticker che la ritrae in abiti tradizionali russi con copricapo kokochnik, circondata da motivi floreali e matrioske, con sotto la parola ukokoshit, che significa “mandare all’altro mondo”, ossia “uccidere”. Più che diplomazia, cabaret macabro. In poche ore, 340mila persone hanno visualizzato il post e centinaia hanno reagito con risatine e pollici alzati.
Dietro la farsa, però, si legge una verità amara: il Cremlino ha bisogno di nemici simbolici per giustificare la guerra e alimentare l’idea di un assedio permanente dell’Occidente. Mentre i soldati muoiono al fronte e le sanzioni mordono l’economia russa, sul web si combatte la battaglia della narrativa: e in quella, colpire l’immagine di un presidente europeo mite e rispettato come Mattarella serve a galvanizzare il pubblico interno.
Dall’altra parte dell’Atlantico, però, la pazienza sta finendo. Donald Trump, a bordo dell’Air Force One di ritorno dalla Scozia, ha lanciato un messaggio senza precedenti: «Non abbiamo ricevuto nulla da Mosca, è una vergogna». Per la prima volta, il presidente americano ha messo un countdown ufficiale: dieci giorni, fino all’8 agosto, per fermare l’offensiva e avviare un vero negoziato. In caso contrario, la pressione americana aumenterà.
Il Cremlino ha risposto con la consueta freddezza. Dmitry Peskov ha confermato di aver “preso nota” dell’ultimatum ma ha subito messo le mani avanti: i colloqui con Washington stanno “rallentando”, il processo di normalizzazione “non va né avanti né indietro”. Un modo elegante per guadagnare tempo, mentre Mosca continua a giocare su due tavoli: guerra sul campo e guerra della propaganda.
Il paradosso è evidente. Da un lato, Trump parla di ultimatum e prova a ridisegnare la strategia americana; dall’altro, la Russia preferisce dedicarsi alla costruzione di un teatro mediatico, fatto di liste nere, insulti a distanza e sticker violenti. In questo scenario, il nome di Sergio Mattarella – un presidente di sobrietà quasi monastica – diventa un simbolo della distorsione: trasformato in nemico solo per aver ricordato che la libertà va difesa.
In fondo, la vera lezione che arriva da questa vicenda è duplice: Mosca ha paura delle parole più che delle armi, e la propaganda può essere tossica quanto un missile. Finché in cima alle priorità ci sarà l’umiliazione dell’Occidente e non la pace, ogni ultimatum rischia di cadere nel vuoto. Ma intanto, nella “Russia fortezza”, qualcuno ride davanti a un adesivo con scritto “uccidere”, come se fosse una vignetta da collezione. Il mondo osserva. E aspetta.