Il 24 febbraio 2022 l’invasione russa ha aperto un fronte di guerra ma anche un fronte politico destinato a ridisegnare gli equilibri della sicurezza occidentale. Da quel giorno, secondo l’ultima rilevazione fornita dal Kiel Institute — aggiornata al 31 agosto 2025 — quarantadue Paesi hanno inviato armi, munizioni e sistemi di difesa all’Ucraina. La mappa elaborata dal centro studi tedesco rivela un quadro ormai molto diverso da quello che ci si sarebbe aspettati tre anni fa: l’asse portante non è più soltanto Washington, ma un’inedita costellazione di Paesi nordici e dell’Est che ha assunto un ruolo strategico decisivo.
Gli Stati Uniti restano il primo donatore con 64,6 miliardi di dollari in aiuti militari, una cifra accumulata prima della svolta trumpiana che ha congelato parte del sostegno e costretto Kiev a cercare nuovi partner. L’amministrazione attuale continua a inviare assistenza, ma in modo più selettivo, meno automatico e con una chiara intenzione politica: «nessun assegno in bianco». Nel frattempo, in Europa, si sono mossi attori inattesi.
La Germania ha scalato rapidamente la classifica dei donatori, raggiungendo 17,7 miliardi. Il Regno Unito, con 13,8 miliardi, conferma la propria linea interventista, ma a sorprendere sono stati Paesi medio-piccoli come Danimarca, Olanda e Svezia: tra i 9 e i 7 miliardi ciascuno. Più della Francia, ferma a 6 miliardi, e nettamente più dell’Italia, il cui contributo complessivo — 1,7 miliardi — la colloca in una fascia medio-bassa rispetto agli alleati. Ancora più indietro la Spagna, con appena 790 milioni.
Il vero spartiacque, però, è rappresentato dal blocco nordico. Nel giro di quindici mesi, Copenaghen, Amsterdam e Stoccolma hanno trasformato il sostegno all’Ucraina in una priorità geopolitica e industriale. È una scelta che va oltre la contingenza bellica: indica una strategia condivisa, un rafforzamento delle capacità militari comuni, una fiducia crescente nella cooperazione diretta con Kiev e un allontanamento dalle lentezze della tradizionale catena decisionale dell’Unione.
Sul fronte dei carri armati, Varsavia rimane la capitale europea dell’assistenza: 354 mezzi inviati, in gran parte versioni modernizzate dei T-72 sovietici, hanno fatto della Polonia il vero polmone corazzato dell’esercito ucraino. Alle sue spalle, si collocano Olanda e Danimarca con 104 e 94 tank. Più dei 76 spediti dagli Stati Uniti, dove però solo 31 sono Abrams di ultima generazione, e più dei 60 Leopard inviati dalla Germania dopo un lungo travaglio politico interno.
A Berlino, Olaf Scholz aveva inizialmente frenato ogni decisione che potesse essere interpretata come un’escalation. Ma l’evidenza sul campo ha cambiato gli equilibri: il sostegno tedesco si è fatto massiccio, soprattutto in ambito artiglieria. E proprio qui si registra un altro segnale di mutamento dei rapporti di forza. Gli Stati Uniti hanno fornito 210 obici Howitzer, ma l’Europa — Germania, Regno Unito, Italia, Francia e Danimarca — li ha superati in termini combinati. È un dato simbolico: l’artiglieria è stata la colonna vertebrale della resistenza ucraina nella prima metà della guerra e, per la prima volta dagli anni Ottanta, diverse potenze europee hanno gestito un flusso coordinato di mezzi pesanti verso un Paese sotto attacco.
Il dominio americano resta però intatto in un settore: la difesa aerea. Gli Himars, 41 piattaforme multirazzo consegnate dal Pentagono, hanno cambiato il ritmo del conflitto. I Patriot, altrettanto cruciali, rappresentano il nervo scoperto della strategia ucraina. Prima dello stop imposto da Trump, Washington ne aveva inviati tre, insieme a tredici batterie Nasams. Zelensky lo ripete da mesi: «Ogni Patriot salva vite». Ma le scorte mondiali sono limitate e l’addestramento richiede mesi. Germania, Italia e Francia hanno contribuito con tre sistemi Samp-T, efficaci ma ora a corto di munizioni. È il capitolo più delicato della difesa europea.
Accanto alla corsa agli armamenti c’è un’altra storia, meno visibile ma determinante: la Danimarca è stato il primo Paese a investire direttamente nell’industria bellica ucraina, in particolare nella produzione dei droni. La scelta ha fatto scuola: Kiev vede nel modello danese una formula per garantire continuità alla propria capacità produttiva e sganciarsi parzialmente dalla dipendenza dagli arsenali occidentali. Una strategia industriale, oltre che militare.
Ma mentre il Nord accelera, nell’Europa “classica” tornano vecchie crepe. Il progetto FCAS — il caccia di nuova generazione da 100 miliardi che dovrebbe diventare il pilastro della difesa europea del 2040 — è impantanato nel braccio di ferro tra Dassault Aviation e i partner tedeschi e spagnoli. È l’ennesimo segnale di quanto sia complesso, nel continente, trasformare il discorso politico sulla “autonomia strategica” in un’architettura reale e funzionante.
E l’Italia? Per ora segue senza guidare. Con il contributo più modesto tra le grandi economie, con un ruolo industriale importante ma non determinante, e con un peso politico inferiore rispetto ai protagonisti di questa nuova fase, Roma resta in seconda linea. Il rischio è evidente: quando la guerra cambierà nuovamente forma — e succederà — la voce dell’Italia potrebbe contare meno di quanto contasse appena tre anni fa.
L’unica certezza è che il conflitto ucraino non ha solo riscritto le frontiere dell’Europa orientale, ma ha ridisegnato anche la gerarchia interna del continente. E ora, tra l’esaurimento dei Patriot, l’attivismo del Nord e le tensioni franco-tedesche, la domanda è una sola: l’Europa saprà sostenere l’Ucraina anche quando gli Stati Uniti, per ragioni politiche o strategiche, decideranno di arretrare davvero?







