L’uomo Del Monte ha detto stop: il colosso della frutta in scatola dichiara bancarotta negli Stati Uniti

L’uomo del Monte ha detto stop. E stavolta per davvero. Dopo 139 anni di storia, uno dei marchi simbolo dell’industria alimentare americana ha gettato la spugna. Il primo luglio 2025, Del Monte Foods ha presentato istanza di fallimento negli Stati Uniti, appellandosi al cosiddetto Chapter 11, la procedura di bancarotta che consente alle aziende in difficoltà di ristrutturare i propri debiti sotto il controllo del tribunale. Un colosso da oltre un secolo sulle tavole di mezzo mondo si arrende a un mercato che non ha più spazio per i suoi prodotti. Frutta in scatola, verdure conservate, succhi, snack pronti all’uso: tutto ciò che per generazioni è stato sinonimo di praticità e fiducia oggi non basta più a garantire la sopravvivenza.

A distanza di decenni da quel celebre spot degli anni ’80 – dove un distinto signore in abito bianco e cappello panama camminava tra le piantagioni, assaggiava la frutta matura e, con un cenno silenzioso ma solenne, dava il suo benestare – la realtà appare ben più amara. L’”uomo Del Monte” ha detto sì per oltre un secolo. Ma oggi, davanti a un debito che supera 1,2 miliardi di dollari e a un crollo delle vendite apparentemente irreversibile, quel sì è diventato un no definitivo. Non si tratta di una chiusura immediata: l’azienda continuerà temporaneamente a operare, grazie a un finanziamento ponte da oltre 900 milioni di dollari offerto da alcuni dei creditori. Ma è chiaro che la sua identità, la sua struttura e forse anche il suo nome sono destinati a cambiare profondamente.

In una nota ufficiale, l’amministratore delegato Greg Longstreet ha cercato di rassicurare dipendenti, fornitori e consumatori parlando di «un processo necessario per accelerare il rilancio e creare una Del Monte più forte e duratura». Ma la verità è che si tratta di un rilancio tutt’altro che garantito. La crisi della società non è esplosa da un giorno all’altro. È il risultato di anni di scelte difficili, di un mercato sempre più orientato verso l’alimentazione fresca, biologica, priva di conservanti. Ma anche di un consumatore cambiato, più attento ai prezzi, meno affezionato ai grandi marchi e molto più attratto dalle cosiddette private label, i prodotti a marchio del supermercato che garantiscono costi più bassi e qualità spesso comparabile.

Negli ultimi anni, la frutta in scatola è passata da simbolo di progresso alimentare a prodotto visto con sospetto, percepito come superato, talvolta persino “malsano”. Il mercato ha chiesto innovazione, trasparenza e sostenibilità. E Del Monte, nonostante i tentativi, non è riuscita a tenere il passo. Ha introdotto nuove linee “salutari”, packaging biodegradabili, porzioni ridotte, ma senza riuscire davvero a invertire la tendenza. A peggiorare il quadro, ci si è messa anche la guerra dei dazi avviata dall’ex presidente Trump, che ha reso più costose le importazioni, compresi molti degli ingredienti utilizzati dalla stessa Del Monte. L’aumento dei prezzi, unito all’inflazione post-pandemica e a una concorrenza spietata, ha portato i consumatori americani a ridurre le spese superflue, lasciando sugli scaffali le confezioni con il classico logo verde e oro.

Già nel 2023 S&P Global aveva declassato il rating dell’azienda da B a B–, segnalando le difficoltà operative e la prospettiva negativa sul breve periodo. Le vendite, soprattutto negli Stati Uniti, avevano iniziato a calare ben prima. L’appeal del brand, un tempo fortissimo, era scivolato via in silenzio. Eppure, fino agli anni Duemila, Del Monte sembrava inarrestabile: presente in oltre 90 Paesi, con una rete di distribuzione capillare e una produzione che spaziava dalle Filippine all’America Latina, riusciva a garantire prodotti di massa con un’immagine quasi da alta gamma. Quel tono coloniale dello spot anni ’80 – oggi probabilmente improponibile – era sinonimo di selezione e qualità. L’uomo del Monte non era solo un testimonial: era una garanzia.

Del Monte era stata fondata nel 1886 in California, e nel corso della sua lunga storia aveva attraversato guerre, crisi economiche, fusioni, acquisizioni e persino una scissione, con la divisione asiatica rimasta indipendente rispetto a quella americana. Ma nulla, nemmeno la Grande Depressione o il razionamento alimentare bellico, aveva mai messo in discussione la sua solidità. Almeno fino a oggi.

A decretare la fine di un’epoca, più che un crollo spettacolare, è stato un lento e inesorabile scivolamento verso l’irrilevanza. I numeri parlano chiaro: vendite in discesa, margini ridotti, crescita praticamente nulla. E con un debito superiore a un miliardo di dollari, anche il semplice mantenimento delle attività è diventato insostenibile. La richiesta di bancarotta non è un colpo di scena, ma la conseguenza di una lunga agonia. Eppure fa notizia, perché coinvolge un marchio che ha fatto la storia. Un nome familiare, presente in milioni di dispense, con quella lattina lucida che sembrava non dover mai cambiare.

Oggi però anche i giganti cadono. E seppure il marchio Del Monte continuerà forse a vivere sotto un’altra forma, magari venduto a qualche fondo o rilanciato in versione startup, l’epoca in cui bastava il sì di un uomo vestito di bianco per garantire fiducia e qualità è tramontata per sempre. In un mondo in cui ogni acquisto è passato al setaccio delle recensioni online, dei valori nutrizionali, della sostenibilità ambientale e sociale, la semplicità rassicurante di uno spot non basta più.

La storia dell’uomo Del Monte finisce così: con un gesto silenzioso, senza drammi, ma carico di significato. Dopo 139 anni, ha detto no. E per una volta, nessuno potrà dargli torto.