Meloni, il rebus del referendum sulla giustizia: il pressing per votare a marzo si scontra con il nodo tecnico dei tre mesi

Premier Giorgia Meloni

Quando si voterà per il referendum sulla giustizia è diventata la domanda che attraversa governo, Quirinale e maggioranza. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, raccontano le chat e i retroscena di palazzo, vorrebbe portare gli italiani alle urne il prima possibile per capitalizzare il momento favorevole. Secondo i boatos interni alla coalizione, infatti, in questo passaggio iniziale il fronte del sì alla riforma sarebbe avanti di circa dieci punti rispetto al no, un margine che la maggioranza teme possa assottigliarsi con il passare delle settimane e con gli effetti, anche impopolari, di alcune misure della manovra.

Su questo desiderio di accelerare, però, si innesta un vincolo tecnico che rischia di trasformarsi in un caso politico. Per indire il referendum occorre un decreto del presidente della Repubblica e tra il decreto di indizione e la data del voto deve trascorrere un intervallo di tre mesi. È una finestra temporale pensata per garantire che la campagna referendaria possa svolgersi senza compressioni e per ridurre al minimo il rischio di impugnazioni davanti ai giudici. Al Viminale, dove i tecnici stanno facendo e rifacendo i conti, il timore esplicitato è proprio questo: forzare troppo i tempi potrebbe aprire la strada a ricorsi, esposti e contestazioni che finirebbero per mettere in discussione l’intero percorso.

Oggi il Consiglio dei ministri è chiamato a fare un primo passo formale. Sul tavolo non c’è ancora la data della consultazione, ma una norma che modifica da una a due le giornate di voto, riportando la scelta alla formula domenica e lunedì. Una decisione che, nelle intenzioni dell’esecutivo, dovrebbe favorire l’affluenza e dare un segnale politico di attenzione a una riforma presentata come centrale per l’azione del governo. Ma mentre il Cdm si prepara a deliberare sul calendario delle urne, nei gruppi WhatsApp di ministri e alleati continua il rimpallo di ipotesi: ognuno fa circolare la sua data, nessuno si sbilancia davvero.

La più quotata, nelle ultime ore, è quella del 29 marzo. Cadendo nella Domenica delle Palme, a ridosso di Pasqua, questa data viene considerata la soluzione più solida per evitare contestazioni sull’intervallo dei tre mesi dal decreto di indizione e per tenere insieme le esigenze dei diversi attori istituzionali. Al Quirinale, secondo quanto trapela dai ragionamenti di maggioranza, si guarda con attenzione proprio al rispetto letterale delle finestre temporali per evitare che l’atto del presidente possa essere esposto a critiche sul piano formale. Al Viminale si sottolinea che una scelta troppo aggressiva sui tempi finirebbe per indebolire lo stesso referendum, offrendo un appiglio a chi dovesse decidere di impugnarlo.

È qui che si inserisce il secondo elemento di complessità: il nuovo quesito depositato il 19 dicembre in Cassazione da quindici cittadini. Il testo, descritto come più articolato e ricco di citazioni sulle modifiche costituzionali, punta anch’esso alla riforma e apre un fronte ulteriore sui tempi. I promotori non hanno ancora raccolto le cinquecentomila firme necessarie, ma fanno appello ai comitati perché li sostengano nella raccolta. La sola presenza di un nuovo quesito, però, rischia di complicare la scansione delle tappe e impone alla politica e alle istituzioni un supplemento di cautela per non trovarsi con un calendario referendario costruito su basi fragili.

Nel frattempo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha indicato pubblicamente il mese di marzo come orizzonte possibile per il voto, confermando la volontà del governo di non allungare troppo i tempi. Nelle stesse ore, il nome del guardasigilli, quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del presidente della Repubblica Sergio Mattarella si intrecciano in tutte le ricostruzioni di queste ore: è su questo quadrilatero istituzionale che si gioca la partita tra accelerazione politica e prudenza giuridica.

Da una parte c’è la spinta della maggioranza, che guarda ai sondaggi e alla possibilità di trasformare in consenso referendario l’attuale vantaggio del sì. Dall’altra c’è la necessità di varare un decreto di indizione inattaccabile sul piano tecnico, rispettare alla lettera la finestra di tre mesi, tenere conto del nuovo quesito pendente in Cassazione e di eventuali ricorsi pronti a essere depositati. È un equilibrio delicato, che rende la scelta della data molto più di un semplice dettaglio di calendario e che rischia di trasformare il referendum sulla giustizia nell’ennesimo terreno di scontro tra politica, diritto e percezione dell’opinione pubblica.