Nel nome di Wojtyła e della dottrina: Peter Erdő, il candidato del rigore e della tradizione al prossimo Conclave 

di Luca Arnaù

Nel 1956, in un quartiere popolare di Budapest, un bambino guarda la sua casa bruciare. Ha quattro anni, si chiama Peter Erdő, e quella lingua di fuoco è il segno visibile della repressione sovietica sull’Ungheria in rivolta. L’Armata Rossa non ha pietà. Il piccolo Peter, primo di sei fratelli, viene trascinato via in fretta dai genitori: solo i vestiti addosso e qualche oggetto di fortuna. Un trauma che si è sedimentato in profondità, diventando un filtro attraverso cui guardare il mondo. Da allora, per lui, libertà religiosa e fedeltà alla fede sono diventati qualcosa che si difende anche con la memoria.

Sessant’anni dopo, lo si vede uscire con passo silenzioso dalle riunioni cardinalizie a Roma, seduto nei sedili posteriori di un’auto scura. È sempre impeccabile, sempre in silenzio. Il cardinale Peter Erdő non ha mai cercato i riflettori, ma è da vent’anni Primate d’Ungheria e da dieci una figura di riferimento per le frange più solide e dottrinali della Chiesa. A 72 anni, è il più autorevole rappresentante della “minoranza wojtyliana” che entrerà in Conclave. È stato proprio Giovanni Paolo II a puntare su di lui nel 2000, chiamandolo a guidare la diocesi di Esztergom-Budapest. Allora aveva appena 51 anni, ma da tempo nel Vaticano lo si considerava uno dei giuristi più brillanti d’Europa.

Laureato in teologia e diritto canonico al Laterano, professore, rettore del collegio ungherese a Roma, conferenziere in tutto il mondo, Erdő è uomo di libri e di biblioteca. Ha pubblicato oltre duecento articoli accademici e venticinque volumi, ricevendo premi anche all’Institut Catholique di Parigi. Ha studiato a Berkeley, parla sei lingue (incluso un po’ di russo, imparato da piccolo), ama la musica classica e quella ebraica, ascolta Chopin e cammina, appena può, tra le colline ungheresi con passo regolare. È un trekker disciplinato, con lo stesso passo che applica al governo della Chiesa.

Ma non è solo accademia: Erdő è stato presidente della Conferenza episcopale ungherese per un decennio e del Consiglio delle Conferenze episcopali europee per un altro. È lì che ha costruito la sua rete internazionale, con un profilo europeo più che nazionale, capace di far breccia anche fuori dai confini magiari. Sotto Papa Francesco ha mantenuto una posizione di rispetto e collaborazione, venendo scelto come relatore generale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia nel 2014 e 2015. Un incarico delicatissimo, che ha portato avanti con disciplina e un’eleganza formale mai venata di provocazioni.

La sua teologia è salda, il suo approccio alla Chiesa è strutturato: sacramenti, gerarchia, tradizione. Erdő ha più volte affermato che «l’Eucaristia e il sacerdozio non possono essere separati» e si è detto contrario al celibato facoltativo per i preti. Non ama le ambiguità dottrinali né le sperimentazioni sinodali. È per molti versi l’opposto dell’immagine “ospedale da campo” offerta da Francesco: meno inclusiva, certo, ma anche più coerente nella forma e nella sostanza. Se dovesse diventare Papa, sarebbe un ritorno all’impianto di Wojtyła: parola chiara, ortodossia, difesa della vita e della famiglia.

È per questo che molti cardinali conservatori guardano a lui con rispetto. Tra loro, si dice, ci sarebbe stato anche il defunto cardinale George Pell, che vedeva in Erdő la figura ideale per ricomporre alcune “storture” del pontificato di Francesco, soprattutto in materia di diritto canonico e gestione interna. Lo apprezzano anche vescovi dell’Est Europa, dei Balcani e dell’Africa: mondi che chiedono ordine, stabilità, direzione.

Ma Erdő non è un nostalgico. Non vuole tornare indietro, semmai mettere in sicurezza il presente. È stato uno dei pochi a parlare con realismo dell’immigrazione, sottolineando il bisogno di equilibrio tra solidarietà e integrazione, per evitare tensioni e ghettizzazione. Ha difeso i cristiani perseguitati del Medio Oriente con decisione, e ha sempre sottolineato l’importanza del dialogo con l’Islam. Il suo è un conservatorismo razionale, non barricadero.

A Budapest, è ancora oggi amatissimo. Non solo tra i credenti. Qualche anno fa ha pubblicato un libro di ricette della tradizione ungherese, con l’obiettivo di far riscoprire ai giovani la cucina come forma di identità e memoria. Il suo piatto preferito è il pesce alla paprika. È un uomo che cucina la teologia lentamente, senza slogan, ma con fuoco acceso. Come disse una volta in un’omelia: «Servire Cristo per far scoprire la fede agli altri è la cosa più bella della vita». Forse non sarà il nome più chiacchierato. Ma in Sistina, il suo nome circola eccome. E se alla fine servisse un Papa europeo, conservatore, solido e capace di mediare, Peter Erdő sarebbe pronto. Con passo silenzioso. E memoria lunga.