Una mattina di pioggia, un traghetto che solca l’acqua grigia verso Staten Island e un sentimento che, da quelle parti, non cambia da decenni: la paura di ciò che appare nuovo. Per capire la sfida che Zohran Mamdani rappresenta per New York, bisogna cominciare qui, dove l’orizzonte è più provinciale di quanto le cartoline della Mela suggeriscano. Non è la skyline scintillante a raccontare questa città, ma la parte che non appare mai nei film: case basse, bandiere appese ai portici, auto parcheggiate in doppia fila davanti alle chiese cattoliche e un’idea semplice di sicurezza: mantenere tutto com’è.
Su questo isolato sociale si è innestata la narrazione anti-Mamdani: uomo nato in Uganda, musulmano, socialista, promotore di politiche pro-immigrati e critico verso lo Stato di Israele. Per molti, lì dove il conservatorismo è quotidiano come il caffè della mattina, un profilo inaccettabile. «È una questione di ordine», spiegano in fila al ferry, ricordando 11 settembre, uniformi e patriottismo. Poi la frase che si ripete da quartiere a quartiere: «Meglio Cuomo». Un paradosso per chi, solo pochi anni fa, definiva l’ex governatore “l’arroganza dell’élite”.
La città che vota contro Mamdani non lo fa per amore di Cuomo, ma per esclusione. Lo dimostrano anche le strade silenziose di South Williamsburg, dove la comunità ultraortodossa chassidica si muove rapida, come sempre. Nessun entusiasmo, ma disciplina. Rabbanìm che firmano appelli, timori geopolitici che diventano paura quotidiana. Nella mente dei più ortodossi, il candidato progressista rappresenta un rischio concreto per Israele e per la sicurezza della loro comunità: dalle tassazioni sulle organizzazioni legate ai coloni alla narrativa su Gaza. È una discussione antica che qui si fa concretezza politica: l’urna come scudo.
Dall’altra parte della città, i grattacieli di Midtown ospitano un’altra sfiducia: quella dei proprietari immobiliari e dei manager che vivono all’ombra del vetro specchiato. Temono tasse più alte, limiti agli affitti, riduzione della polizia, nuove regole sui rapporti di lavoro. In realtà l’economia immobiliare corre da oltre due anni, ma nella campagna elettorale la percezione supera i grafici. «La città crollerebbe», ripetono. È la paura che la rivoluzione economica progressista arrivi fin dentro i loro salotti, dietro le facciate di arenaria.
Questa New York non è quella delle serie tv. È frammentata, diffidente, rumorosa di giorno e cinica di notte. Cambiano i linguaggi, non gli schemi: chi teme perdere qualcosa sceglie chi rappresenta continuità. Cuomo, dopo l’uscita di scena forzata, torna come candidato “contro”. Contro Mamdani, ma anche contro l’idea di una città più radicale, più inclusiva e meno guidata dai tradizionali centri di potere.
Intanto, nella campagna progressista si suona Leonard Cohen e si cita la storia di Manhattan come promessa di conquista culturale, prima ancora che politica. La retorica della riscossa vibra forte a Queensbridge, tra case popolari, attivisti che bussano alle porte e giovani che accendono la musica dalle finestre. Qui Mamdani trova sostegno: tra rider, artisti, comunità migranti, chi vede nel social housing non una minaccia ma un diritto, chi ha vissuto la pandemia come spartiacque e non vuole tornare al “prima”.
E poi c’è l’ultimo osservatore, il più silenzioso. Dalla torre di vetro sulla Quinta Strada si guarda il duello come un’occasione: se vince Cuomo, l’ex governatore resta legato a un passato ingombrante, potenzialmente condizionabile. Se vince Mamdani, il bersaglio sarà più facile: un sindaco progressista come avversario naturale in vista delle prossime scadenze federali. La città che Ford un giorno invitò a “morire” rischia di tornare campo di battaglia istituzionale, tra tagli e risposte muscolari sul tema immigrazione.
Domani si chiudono i seggi. In molti quartieri l’atmosfera è quella delle grandi attese, altrove è indifferenza vigile. È una sfida che va oltre New York: parla di identità, paura e desiderio di cambiamento. Un sindaco può poco su una città tanto vasta, ma può dire molto su chi la abita oggi. E sul futuro di un’America dove il voto non è solo scelta politica, ma spesso, ancora, un riflesso sociale: la linea sottile tra speranza e timore.







