Padova, rifiuta l’orale della maturità: “Il voto non mi rappresenta, la scuola deve cambiare”

Una stretta di mano, uno sguardo dritto in faccia alla commissione, e poi una frase netta: «Signori, grazie di tutto, ma io questo colloquio non lo voglio sostenere. Arrivederci». Gianmaria Favaretto ha 19 anni, è uno studente del liceo scientifico Fermi di Padova e il suo esame orale di maturità è durato appena il tempo di una dichiarazione. Un atto simbolico. Un gesto meditato a lungo. Una protesta educata, ma potentissima, contro quello che lui definisce «un sistema scolastico inadeguato, competitivo, e incapace di valutare le persone per ciò che sono davvero».

Non si è trattato di un colpo di testa o di una ribellione estemporanea. Gianmaria, al momento dell’orale, aveva già fatto i suoi conti: 31 crediti scolastici accumulati nel triennio, 17 punti ottenuti alla prima prova scritta, 14 alla seconda. Totale: 62. Quanto basta per conseguire il diploma. «E così ho deciso di fermarmi. La mia scelta – spiega – non è un rifiuto della scuola, ma di un rituale vuoto. Un esame che pretende di racchiudere la complessità di una persona in un numero. Non mi va bene. Non mi interessa».

Per Gianmaria l’orale è una messa in scena, una formalità che serve a etichettare gli studenti più che a valutarli. «Tutti dicono che è solo un voto, ma poi quel numero pesa per davvero. Ci definisce agli occhi degli altri. E io non voglio essere definito così». A suo avviso la scuola italiana ha smesso di essere un luogo di formazione e confronto per diventare una macchina che genera stress, classifiche, confronti esasperati. «In classe c’era troppa competizione. Ho visto compagni diventare cattivi per mezzo punto. Questo non è crescere: è imparare a vincere sugli altri. E non mi interessa».

Il gesto ha spiazzato la commissione. La presidente – racconta Gianmaria – ha mostrato rigore: «Mi ha detto che non sostenere l’orale era un insulto al lavoro dei professori che avevano corretto le prove». Ma tra gli insegnanti interni, quelli che lo conoscono da anni, il dialogo è stato più aperto. Ne è seguito un confronto franco, da cui è emersa la possibilità di un compromesso: «Abbiamo parlato, mi sono stati fatti alcuni quesiti, e ho accettato di rispondere. Non per compiacere, ma per chiudere in modo sereno». Tre punti in più, voto finale: 65 su 100.

La sua storia, raccontata al Mattino di Padova, non è passata inosservata. E non solo per l’originalità della scelta, ma per il coraggio di una posizione controcorrente in un momento in cui la maturità è ancora vissuta da molti come un passaggio sacro, quasi iniziatico. Gianmaria non la pensa così: «Non sono il primo né l’ultimo a sentirmi a disagio in questo sistema. Ma forse sono tra i pochi a dirlo apertamente. La scuola dovrebbe insegnarci a essere liberi, non a conformarci».

Dietro la sua scelta non c’è un rifiuto dell’impegno. Anzi. È la conseguenza di un percorso personale profondo, maturato negli anni del liceo. «Il mio non è un no alla cultura, alla conoscenza, allo studio. È un no al modo in cui queste cose vengono valutate e incasellate. Penso che ogni persona abbia tempi e modalità diverse per esprimersi. E invece qui ci chiedono tutti di stare dentro la stessa griglia, di parlare allo stesso modo, di dimostrare in venti minuti ciò che magari uno ha impiegato anni a costruire dentro di sé».

E se il suo gesto facesse scuola? Gianmaria non cerca seguaci. Non vuole dettare modelli. Vuole solo che se ne parli. «Vorrei che il mio gesto servisse a far riflettere. Ai professori, ai presidi, ai politici che continuano a riformare la scuola senza mettersi mai davvero nei panni degli studenti. E a quei ragazzi che ogni giorno si sentono sbagliati solo perché non rientrano nelle medie, nelle griglie, nelle percentuali. Non siete voi il problema. È il sistema che ha smesso di ascoltarvi».

Perché alla fine, dice, “la maturità non è un voto. È decidere chi si vuole essere. E io ho deciso di essere libero”.