Il precariato non è solo una condizione lavorativa: è un destino imposto. Una condanna alla marginalità, all’incertezza, alla rinuncia programmata ai propri diritti fondamentali. E ora, una sentenza del Tribunale di Rimini lo mette nero su bianco, con una chiarezza che raramente si ritrova in un’aula di giustizia. Il giudice del lavoro Lucio Ardigò ha stabilito che il Ministero dell’Istruzione e del Merito dovrà risarcire una docente che ha passato trentadue anni — l’intera carriera — come precaria, con la massima indennità prevista dalla legge: ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione.
Il fatto, per quanto eccezionale sul piano giudiziario, è tutt’altro che raro nella realtà quotidiana della scuola italiana. Migliaia di docenti ogni anno iniziano il proprio anno scolastico senza sapere se e dove saranno impiegati. Contratti a tempo determinato che si rinnovano ciclicamente, con la stessa persona, nello stesso ruolo, per decenni: una palese violazione della direttiva europea 1999/70/CE, che vieta l’abuso dei contratti a termine e impone una stabilizzazione dopo un uso prolungato e continuativo.
La vicenda della docente risarcita a Rimini è solo la punta dell’iceberg. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT sul mercato del lavoro, i lavoratori precari in Italia sono circa 3,2 milioni. Di questi, oltre un terzo ha più di 40 anni. Il mito del precariato come “trampolino” verso un posto stabile è stato smentito da tempo: molti restano incagliati in un limbo fatto di contratti a termine, partite IVA fittizie, lavoro intermittente, somministrazioni a singhiozzo. I settori più colpiti? Scuola, sanità, logistica, spettacolo, servizi alla persona. Ovvero i pilastri della vita collettiva.
La retorica della flessibilità — usata per giustificare riforme del lavoro che dagli anni Novanta a oggi hanno smantellato la centralità del contratto a tempo indeterminato — si è scontrata con una realtà ben più cinica: la flessibilità è servita soprattutto alle imprese e allo Stato per ridurre il costo del lavoro, senza una vera strategia di inclusione e valorizzazione del capitale umano.
Nel caso della scuola, il paradosso è ancora più evidente. Lo Stato, che dovrebbe essere il garante del diritto al lavoro secondo l’articolo 4 della Costituzione, è in realtà tra i principali responsabili dell’abuso dei contratti a termine. La giustificazione è sempre la stessa: mancano le risorse, le procedure concorsuali sono lente, il turn-over è difficile da pianificare. Eppure, la Corte di Giustizia Europea ha più volte condannato l’Italia per l’uso reiterato di contratti a termine nella pubblica amministrazione, scuola in primis.
La sentenza di Rimini, in questo senso, assume un valore simbolico e politico. Non si tratta solo di un risarcimento economico. È il riconoscimento ufficiale di una ferita inflitta per anni con fredda indifferenza. “È stato accertato un danno grave, sistemico”, ha dichiarato l’avvocato Alberto Donini, che ha seguito la causa. Ed è un danno che riguarda anche chi ha rinunciato a far valere i propri diritti, o chi non può permettersi una lunga causa contro lo Stato.
Dietro le statistiche, ci sono vite. Trentenni che non possono programmare un mutuo. Quarantenni che cambiano città ogni anno per inseguire un contratto. Cinquantenni che non sanno se avranno i contributi necessari per la pensione. Famiglie spezzate, figli rimandati, speranze sospese. Il precariato non è solo una condizione economica: è una patologia sociale che mina la fiducia nelle istituzioni, nella possibilità di una vita dignitosa, nella democrazia stessa.
Il governo Meloni ha promesso riforme per ridurre il precariato nella scuola. Ma ogni piano di stabilizzazione viene smentito dai numeri: decine di migliaia di supplenze annuali vengono assegnate ogni settembre. La riforma del reclutamento è ancora ferma. Le graduatorie sono intasate. E soprattutto manca un cambiamento culturale: l’idea che il lavoro non debba essere solo uno strumento di produzione, ma un elemento centrale di cittadinanza e dignità.
Occorre una legge quadro che impedisca davvero l’abuso dei contratti a termine, che riconosca automaticamente il diritto alla stabilizzazione dopo tre anni di servizio continuativo, come già accade in altri Paesi europei. Occorre investire nella formazione, nel ricambio generazionale, nel merito vero. E occorre ascoltare chi ha pagato sulla propria pelle il prezzo di decenni di deregolamentazione e cinismo.
La sentenza di Rimini non risolve il problema. Ma indica una direzione. Ed è quella della giustizia, della riparazione, della dignità. Perché nessuno dovrebbe passare trentadue anni della propria vita senza sapere se domani lavorerà ancora.