Presidenza Trump: il Wall Street Journal certifica il calo di consenso dopo undici mesi

Wall Street

“Trump potrebbe stare perdendo il suo tocco magico”. A scriverlo non è un commentatore liberal né un avversario politico, ma il Wall Street Journal, il quotidiano economico di proprietà di Rupert Murdoch, tradizionalmente vicino al mondo repubblicano. Un segnale che pesa, perché arriva da una testata che negli anni ha spesso difeso o quantomeno tollerato Donald Trump come prezzo da pagare per un’agenda economica aggressiva e per una leadership percepita come “forte”. Oggi, però, il giudizio cambia tono. E diventa una diagnosi politica.

Nell’editoriale dedicato ai primi undici mesi del secondo mandato, il giornale parla apertamente di un presidente che non sale più nei sondaggi, ma “va di lato o giù”. Un’immagine efficace: Trump come “un razzo che non sale”, incapace di imprimere quella spinta iniziale che aveva caratterizzato sia il suo primo ingresso alla Casa Bianca sia il ritorno al potere. “Tutti i sondaggi dicono che è in calo”, scrive il Wsj, citando numeri che raccontano un malessere profondo, soprattutto sui temi che dovrebbero essere il suo terreno naturale.

Secondo un sondaggio AP-NORC, l’approvazione degli americani sulla gestione dell’economia è scesa al 31 per cento, in netto calo rispetto al 40 per cento di marzo. Ancora più marcata la discesa sul fronte dell’immigrazione: il consenso è passato dal 49 al 38 per cento in pochi mesi. Dati che colpiscono perché vanno a intaccare due pilastri della narrazione trumpiana: la promessa di benessere economico e la linea dura sui confini.

Il Wall Street Journal collega questo calo a una serie di fattori che si sono accumulati nel corso dell’anno. In primo luogo l’inflazione, tornata a erodere il potere d’acquisto delle famiglie. Un tema concreto, quotidiano, che svuota il portafogli degli americani e che rende meno tollerabile l’iperattivismo retorico del presidente. “Gli elettori possono sopportare molte cose, ma non quando il costo della vita cresce e i salari non tengono il passo”, è il sottotesto dell’analisi.

C’è poi il fronte politico. “Undici mesi da presidente sono sufficienti per dare sui nervi a tutti, deludere i propri fan e far infuriare i propri nemici”, scrive il giornale. Una frase che fotografa un logoramento generale. Trump appare circondato da “sbalzi d’umore, sfide e segnali negativi”, con un fronte Maga meno compatto e una crescente stanchezza anche tra i sostenitori storici, che per anni hanno accettato il suo linguaggio aggressivo come una sorta di “tassa da pagare per avere qualcuno audace e duro”.

Ma oggi quella tassa pesa di più. “Il suo incitamento all’odio, in un’epoca di violenza politica, finirà per ferire qualcuno”, avverte l’editoriale. Un passaggio duro, che segna una distanza netta rispetto al passato e che riflette un clima americano sempre più nervoso, in cui la retorica diventa un rischio politico prima ancora che morale.

A complicare il quadro c’è lo scandalo Epstein, definito implicitamente come una delle ombre più destabilizzanti di questo primo anno. Non tanto – o non solo – per ciò che è emerso, quanto per quello che continua a suggerire sul rapporto tra Trump e il finanziere pedofilo. Il Wall Street Journal non entra nei dettagli giudiziari, ma riconosce che il caso “fa precipitare il consenso” ed è percepito dall’opinione pubblica come la punta di un iceberg fatto di ambiguità e relazioni imbarazzanti.

Il giornale guarda poi ai segnali elettorali. “Le recenti vittorie dei democratici nel New Jersey e in Virginia, e la corsa alla carica di sindaco di Miami di questa settimana, fanno sembrare il 2026 decisamente tinto di blu”. Un avvertimento chiaro: se il trend non cambia, le elezioni di midterm rischiano di trasformarsi in un referendum negativo sulla presidenza Trump.

Nel suo entourage, racconta il Wsj, c’è chi spera in un reset simbolico a gennaio, con il discorso sullo stato dell’Unione. “Forse”, concede l’editoriale. Ma aggiunge subito che questi discorsi “non hanno più il potere che avevano un tempo”, anche se conservano ancora una parte della loro forza. La suggestione è che la magia delle grandi occasioni televisive non basti più a coprire problemi strutturali.

Da qui la conclusione, che suona come un consiglio politico ma anche come una constatazione: Trump dovrebbe concentrarsi “su cose a cui la gente pensa davvero”. L’intelligenza artificiale, l’inflazione, il futuro delle classi medie tra i 30 e i 40 anni, la difficoltà di comprare una casa, di avere figli, di “mantenere in piedi questa cosa ingombrante chiamata America”.

È un elenco che racconta più di mille slogan. E che segna forse il punto più interessante dell’editoriale: l’idea che il trumpismo, per come lo abbiamo conosciuto, rischi di non bastare più. Non perché manchi il rumore, ma perché manca la risposta alle domande essenziali. Ed è per questo che, oggi, persino il Wall Street Journal prende atto di una verità politicamente scomoda: Donald Trump non è più intoccabile. E il suo tocco magico, se c’è ancora, non funziona come prima.