Ranucci: “Dopo l’inchiesta sul padre della premier, attivati i Servizi”. Boschi: “Inaccettabile se un giornalista è stato seguito”

L’audizione di Sigfrido Ranucci davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, martedì pomeriggio, è iniziata con i ringraziamenti e si è chiusa in un clima da seduta d’emergenza. Il conduttore di Report, accolto con applausi formali, ha ricordato l’attentato subito e la solidarietà ricevuta, ma anche «la fortuna di avere la scorta, che la mia squadra non ha». Poi il tono è cambiato. La vicepresidente della Commissione e capogruppo di Italia Viva, Maria Elena Boschi, ha ripreso il tema già sollevato in Antimafia: il presunto coinvolgimento del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari in un’attività di sorveglianza ai danni del giornalista.

«Sarebbe gravissimo se, dopo la vicenda mai chiarita di Paragon, il governo arrivasse al punto di far seguire un giornalista dai servizi segreti», ha detto Boschi. «La vera prova di libertà non è la solidarietà di circostanza, ma la difesa di chi, come Ranucci e la sua squadra, ogni giorno fa giornalismo d’inchiesta. È nostro dovere capire se ci siano state ingerenze o se sia stata richiesta l’attivazione di apparati di intelligence nonostante l’assenza di deleghe specifiche».

L’intervento ha gelato la sala. Ranucci ha chiesto di poter rispondere in seduta segreta, come già avvenuto il giorno prima davanti alla Commissione Antimafia. Ma Fratelli d’Italia ha fatto muro: «Non c’è nulla di sensibile – ha ribattuto la deputata Sara Kelany –. La secretazione rischia di apparire come un espediente per creare un caso dal nulla. Si pronunci pure in piena trasparenza».

Messo alle strette, il giornalista ha deciso di spiegare pubblicamente: «Mi risulta che Fazzolari, dopo una nostra inchiesta sul ruolo del padre della premier Meloni, abbia ispirato l’attivazione dei servizi per capire quali fossero le mie fonti. Credo che qualcuno in questa Commissione possa confermarlo». Un passaggio che ha acceso immediatamente il dibattito.

La presidente Barbara Floridia, per evitare la degenerazione della seduta, ha sospeso i lavori e riunito i capigruppo. Al rientro, dopo un rapido confronto, la linea cambia: FdI, per bocca della deputata Augusta Montaruli, accetta la secretazione “purché sia condivisa da tutti i gruppi”. La proposta ottiene l’unanimità.

Ranucci, tornato a parlare, ha precisato: «Non ho mai detto che Fazzolari mi abbia fatto pedinare. Ho chiesto la secretazione solo per non dover pronunciare nomi di persone che hanno lavorato nei Servizi e che andrebbero tutelate». E ancora: «Sono un uomo delle istituzioni, figlio delle forze dell’ordine. Se lo Stato, per proteggere perfino la presidente del Consiglio, decide di muoversi, posso comprenderlo. Ma quando quell’azione tocca la libertà di stampa, il rischio è enorme. Per due anni mi sono tenuto tutto per me, ne ho parlato solo quando mi è stato chiesto in sede parlamentare».

Boschi, nel suo secondo intervento, ha chiesto al governo «una verifica immediata» e avvertito: «Se anche un solo episodio di pedinamento fosse confermato, saremmo davanti a una violazione senza precedenti delle garanzie democratiche».

La replica del fronte meloniano non si è fatta attendere. Kelany ha ribadito che «non c’è alcuna prova di quanto affermato da Ranucci» e che «il clima di sospetto rischia di minare la fiducia nelle istituzioni». Il senatore Raffaele Speranzon ha allargato il tiro: «In due anni, il 94% dei servizi di Report ha avuto come bersaglio il centrodestra e solo il 6% il centrosinistra. È lecito chiedere conto di una linea editoriale tanto sbilanciata».

Ranucci ha risposto con calma: «Il pluralismo non si misura in percentuali, ma nella libertà dei giornalisti di raccontare i fatti. Una notizia non ha colore politico».

Il direttore dell’Approfondimento Rai Paolo Corsini, chiamato in causa, ha ammesso di aver “più volte segnalato” a Ranucci la necessità di “ampliare lo spettro dei temi”, ma ha anche difeso il programma: «In termini di costi è tra i più virtuosi del prime time. Mi auguro che nella seconda parte di stagione possa offrire un quadro più ampio».

Lo stesso conduttore ha colto l’occasione per rispondere alle critiche: «Report non è un salotto, è un luogo di inchiesta. Ci hanno tagliato puntate, budget e matricole operative. Ma lamentarsi di Report è come lamentarsi del Giubileo: la Rai dovrebbe valorizzare chi costa poco e porta risultati, non metterlo in discussione».

Dietro le schermaglie, resta il nodo centrale: il rapporto tra potere politico e informazione investigativa. Da un lato la richiesta di trasparenza, dall’altro la tutela delle fonti e la protezione dei giornalisti da possibili interferenze istituzionali. Nel mezzo, il servizio pubblico radiotelevisivo, chiamato a garantire pluralismo e indipendenza senza piegarsi ai veti incrociati.

La presidente Floridia, al termine della riunione, ha chiuso i lavori con una formula diplomatica: «La Commissione difenderà sempre la libertà di informazione, ma nel rispetto delle regole e della verità».

Fuori, nei corridoi, la tensione non si è sciolta. Da Italia Viva a +Europa si moltiplicano le richieste di chiarimento su eventuali “attivazioni anomale” dell’intelligence. Da FdI arriva l’accusa di “uso politico” del caso. Il Partito Democratico parla di “una vicenda che non può essere archiviata”.

Per ora, il verbale della parte secretata resta chiuso in cassaforte. Ma la vicenda è tutt’altro che finita. Il giornalista più scomodo della Rai torna al centro di uno scontro che non riguarda solo lui, ma la linea rossa tra controllo democratico e libertà di stampa.

E se davvero, come ipotizza Boschi, un giornalista fosse stato oggetto di attenzioni da parte dei Servizi segreti, l’eco andrebbe ben oltre il caso Report. Sarebbe un precedente da prima repubblica. O, peggio, da tempi che la democrazia italiana sperava di avere archiviato per sempre.