Il referendum è una preghiera laica e chi non vota tradisce la speranza: la voce immortale di Pannella

Foto di repertorio. Manifestazione per l’aborto del Partito Radicale. Milano, 1975. De Bellis

Il vecchio leader radicale in un intervista datata 2014, struggente e profetica, denunciava l’astensione come il più grande peccato civile: una rinuncia alla speranza, un tradimento della democrazia. Per lui il referendum era un atto di fede e laica devozione, un’arma dolce e potente per trasformare il Paese e salvarlo dall’indifferenza. Di Luca Arnaù

Quando incontrai Pannella, mi aspettavo un politico. Invece trovai un poeta.

Non era come gli altri,  Giacinto detto Marco. Parlava come uno che sa di non dover mai scendere a patti con la banalità. Non usava slogan, ma parabole. Ogni parola era un assalto alla mediocrità del discorso pubblico. Mi ci volle poco, allora, in quella mattinata di settembre del 2014, a capire che stavo per ascoltare non un’intervista, ma una confessione, una predica laica, un grido che veniva dal profondo.

L’occasione era speciale: a Genova, ospiti della comunità di San Benedetto al Porto quella fondata da don Andrea Gallo, il prete dei poveri e degli emarginati morto l’anno prima. C’era il profumo acre del mare e quello più dolce, anche se impastato di tabacco, del vecchio leader radicale. La voce, roca e profonda, si faceva largo come un fiume in piena: «Curo due tumori con due scatole di sigari al giorno. Il fumo mi salva dalla malattia. Sono toscanelli alla grappa, ne fumo 60 al giorno. Con le sigarette ho smesso. Ne ho fumate 100 al giorno per una vita. Poi stop. E ora fumo questi, rigorosamente aspirandoli».

Lo guardavo, mentre parlava, e mi sembrava impossibile che un uomo così magro e malato potesse avere dentro di sé tanta forza. Pannella non era un uomo che si accontentava di sopravvivere: per lui, la vita era una sfida costante, un esercizio di libertà. Come quando citava Ulisse Franciosa: «Digiuno, autofagia e longevità: più metti alla prova il tuo fisico e più campi a lungo. Io ne sono la prova vivente».

Ma non era lì per parlare di sé. Era lì per parlare dell’Italia, e di quei referendum che considerava un’arma sacra. «Andare a votare dovrebbe essere un dogma della Chiesa», mi disse, puntandomi addosso quegli occhi sempre in movimento, «perché chi non va a votare fa il peccato più grande: quello di abbandonare l’Italia alla sua triste sorte. Decidere di non decidere è lo stupro della democrazia». Nell’aria c’era la raccolta di firme per un referendum che non si fece mai, quello sul fine vita e sull’eutanasia. Era appena tornato da Roma dove era stato in udienza da quello che, allora, era il nuovo Papa Francesco e ne era entusiasta.

Lo registrai con un piccolo registratore a cassette, come facevo sempre. E mentre la cassetta girava, si riempiva di frasi che sapevano di battaglia e di carezza insieme. «Radicali e cristiani da sempre e tante volte, vincono insieme», diceva, come un mantra. «Erano le donne cattoliche del nostro meridione, quelle del Veneto bianco, che ci fecero vincere il referendum sul divorzio. Le stesse donne che ci hanno capito quando lottavamo per la legalizzazione dell’aborto».

C’era una dolcezza in quelle parole. Una dolcezza che strideva con l’immagine di Pannella come “Belzebù” della politica italiana. Lui lo sapeva, e se ne compiaceva. Perché dietro i suoi modi provocatori, la sua bisessualità dichiarata, i suoi scioperi della fame e le sue catene ai portoni del potere, c’era un uomo che credeva nella possibilità di un’alleanza tra laici e credenti. «Guarda, lo dico a te e ai tuoi lettori che so mi capiranno: da tempo viene da oltretevere una lunga teoria di lezioni preziose. Pietro indica la strada ai tanti Cesari sordi, muti e ciechi».

Fu un’intervista lunga. Non c’era fretta, non c’era bisogno di chiudere in fretta. A un certo punto Marco si era interrotto per un attimo, aveva preso un sorso d’acqua e acceso un altro sigaro. La stanza si era riempita del profumo dolciastro del tabacco, e la sua voce, più roca che mai, aveva ripreso il filo come se non l’avesse mai lasciato. «Posso cominciare da papa Giovanni XXIII, descritto da Giulio Andreotti in quel bel libro… E poi Giovanni Paolo II, che chiese invano al Parlamento un provvedimento di amnistia. Benedetto XVI, che sospirava che la Chiesa è tanto più forte quanto più si spoglia… E infine questo papa Francesco, che ogni giorno ci indica qualcosa. Va a Lampedusa, abolisce l’ergastolo, proclama il digiuno contro la guerra. Mi sa che gliela daremo, la tessera d’onore del nostro pazzo partito… Papa Francesco è un radicale».

Pannella era così: un uomo capace di scherzare su tutto, persino sulla sua stessa morte, ma serissimo quando si trattava di difendere la libertà. In quegli anni, aveva già due tumori che lo stavano consumando, ma lui rideva, beveva, fumava, e predicava la necessità di andare avanti. «Io non sono uno statista», mi disse. «Non mi interessa la cura dello Stato. Io voglio plasmare il Paese secondo i miei convincimenti. E l’ho già fatto: l’Italia somiglia più a come l’ho voluta io, che a come l’hanno pensata tutti i politici messi insieme».

Aveva ragione. Era stato il padre del referendum sul divorzio, sul nucleare, sull’aborto. Aveva abolito il ministero dell’Agricoltura, sfidato la partitocrazia, introdotto nel linguaggio politico parole come “antiproibizionismo” e “laicità”. Il tutto senza mai diventare un “politico di potere”. Perché lui non voleva poltrone, voleva coscienze sveglie.

Lo ricordo alla fine di quella intervista, quando parlammo di don Andrea Gallo e dei cappellani di carcere che lo sostenevano nella battaglia per l’amnistia. Mi disse: «Sai perché li amo? Perché loro hanno capito che la giustizia non è vendetta, ma misericordia. La nostra lotta è la loro». Poi si interruppe, abbassò lo sguardo sulle mani e sussurrò: «La vita è troppo breve per essere piccoli».

Marco Pannella è morto nel 2016. Ma quelle parole, incise in quella vecchia cassetta, oggi mi risuonano nella mente come un testamento. Il suo era un sogno impossibile: un’Italia più libera, più giusta, più radicale. Eppure, mentre riascolto la sua voce roca, capisco che quel sogno è ancora qui. In ogni battaglia per la libertà, in ogni sussurro contro il silenzio, in ogni voto espresso con la convinzione che la democrazia sia la più sacra delle liturgie laiche.

E alla fine, mi resta negli occhi il sorriso di quell’uomo che non aveva paura di nulla. Neanche della morte. Perché la sua vita, come diceva lui, «è stata un inno alla disobbedienza, all’irriverenza, all’umanità». E in fondo, anche un inno alla poesia. La poesia della politica.