Per la presidente del consiglio, si tratta di un “traguardo storico”. In effetti in passato ci ha provato non è mai riuscito a portare avanti una riforma della giustizia così forte, per molti aspetti così pericolosa per quanto riguarda l’indipendenza della magistratura.
Sono moltissimi i magistrati assolutamente contrari a questa riforma; ma sono tanti anche i giuristi; soprattutto perché essa rischia di rappresentare un deciso passo indietro nella salvaguardia dello Stato di diritto. Al centro del dibattito c’è la divisione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che non rafforza la giustizia ma la indebolisce, scardinando l’equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato.
Per l’Associazione Nazionale Magistrati, si tratta di “un colpo al cuore dell’indipendenza della magistratura”. La separazione delle carriere, spiegano i magistrati, porterà inevitabilmente a due corpi separati: da una parte i giudici, dall’altra i pm, con l’obiettivo mai confessato, di sottoporre quest’ultimo alle dipendenze dell’esecutivo.
Il rischio reale è che il pubblico ministero finisca per dipendere, anche solo indirettamente, dal governo di turno, perdendo quella autonomia che oggi gli consente di indagare liberamente, senza condizionamenti, lontano dalle esigenze politiche e di governo.
Altro punto cruciale è la possibile revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio cardine della Costituzione. Finora ogni magistrato è obbligato a perseguire un reato di cui venga a conoscenza. Inevitabilmente con la riforma appena approvato dal parlamento e che presto sarà sottoposta al referendum, si aprirebbe la strada a una giustizia “selettiva”, dove alcune inchieste potrebbero essere messe da parte per ragioni politiche o di opportunità.
Molti costituzionalisti parlano di un rischio concreto di violazione dei principi di uguaglianza e indipendenza. “La Costituzione del 1948, spiega il giurista Michele Ainis, ha previsto una magistratura autonoma proprio per evitare interferenze del potere politico. Togliere questo equilibrio significa cambiare la natura stessa della nostra democrazia”.
Il corso dei giorni scorsi sono intervenuti sul tema, anche ex presidenti della corte costituzionale, ex giudici della corte stessa che hanno messo tutti in guardia: la separazione delle carriere “può essere una riforma utile solo se accompagnata da garanzie forti di indipendenza”, che oggi non si vedono. Rafforzando così il dubbio che dell’indipendenza della magistratura, alle forze di maggioranza interessa ben poco.
Meloni ha annunciato che ora “la parola passa ai cittadini”. Ma anche su questo fronte c’è temere che il referendum si svolga in un clima di tensione e di disinformazione, ragion per cui il tema dell’indipendenza della magistratura rischia di essere ridotto a slogan. Non ci sarà un sano e giusto approfondimento, non ci sarà un dibattito oggettivo e aperto, ma si rischia di scontrarsi fra fronti contrapposti.
A questo punto appare chiaro che non è una riforma tecnica, ma è una riforma politica. Con il serio rischio che chi controlla la giustizia controlli la democrazia. Sullo sfondo resta la domanda centrale: questa riforma serve davvero ai cittadini? Serve veramente ad ottenere una giustizia più rapida, un processo più giusto, affinché nessuno rimanga vittima di cattiva giustizia?
Dietro il linguaggio della “modernizzazione” si nasconde la volontà di ridimensionare un potere che negli anni ha lottato contro la malapolitica, a partire dalle grandi inchieste per corruzione e tangenti, fino ai processi più recenti che hanno coinvolto esponenti di governo. Il rischio è quello di una giustizia più lenta, più controllata, meno libera. E di uno Stato meno democratico.







