Russia e Cina, tra ombre atomiche, fragilità strategiche e un’America (di nuovo) in fiamme

Presidente Donald Trump

Nel cuore di Mosca, sotto cieli rigidi e tamburi marziali, Vladimir Putin e Xi Jinping hanno firmato un documento che profuma di Guerra Fredda e sa di cenere nucleare. È il 9 maggio, giorno della vittoria sovietica sul nazismo: e proprio in quella data-simbolo, la storia sembra voler essere riscritta, o meglio: rispiegata con altre parole, altri nomi, altri padroni del significato. Russia e Cina hanno evocato lo spettro dell’atomica e siglato una dichiarazione congiunta sulla “stabilità strategica globale” — un’espressione ambigua, in bilico tra minaccia e autodifesa.

Ma l’equilibrio che questi due giganti vogliono restituire al mondo non è stabile, e nemmeno equo. È geometrico, sì: ma fatto di spigoli e fratture, di assi che oscillano e vertici che si scontrano. Un equilibrio precario tra paura, propaganda e calcolo geopolitico.
Il nuovo asse Mosca-Pechino è un matrimonio d’interesse più che d’amore. È figlio di un mondo che cambia e di un ordine liberale che arranca. Ma anche di una vendetta: contro l’unilateralismo americano, contro l’eredità coloniale dell’Europa, contro l’idea che la democrazia sia un punto d’arrivo universale.

La Cina guarda alla Russia come a un pozzo di risorse — energia, spazio, legittimità — ma anche come a un partner fragile. Mosca, umiliata dalle sanzioni, inchiodata a una guerra che consuma e non conquista, si aggrappa a Pechino con la disperazione di chi ha esaurito le alternative. Ma tra i due, le forze sono diseguali: la Cina compra, la Russia vende. La Cina investe, la Russia resiste. La Cina plasma il futuro, la Russia riscrive il passato.

E intanto, sotto l’ombrello della “multipolarità”, si costruiscono strutture parallele all’Occidente: la SCO, i BRICS, l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai. Non sono alleanze, ma camere di risonanza: spazi in cui Mosca e Pechino vogliono ridefinire la narrazione globale, erodendo silenziosamente la grammatica liberale che ha retto il mondo negli ultimi settant’anni.
La guerra in Ucraina è la faglia principale di questo sistema. È lì che l’equilibrio si incrina, è lì che la retorica si fa più scivolosa. La Cina non ha mai condannato l’invasione, ma non l’ha neppure sostenuta. Ha adottato la “neutralità strategica”: un equilibrio verbale, un balletto diplomatico. Parla con Zelensky, propone mediazioni, invoca la pace — ma intanto importa petrolio, gas, carbone, rafforzando l’economia di guerra russa.

È una duplicità calcolata, perfettamente coerente con la dottrina cinese: nessun conflitto aperto, nessuna alleanza che implichi fedeltà. Solo convenienza, solo equilibrio, solo narrazione. L’amicizia “senza limiti”, promessa nel 2022, si è sgretolata sotto i colpi della realtà.
Ma il mondo non è statico. E mentre Mosca e Pechino danzano sul filo del pragmatismo, a Washington è tornato Donald Trump. Il suo ritorno non è un dettaglio, ma una faglia di un terremoto geopolitico. La sua America attacca l’ Europa, ed è ossessionata dalla Cina, inoltre si mostra sempre pronto a scardinare ciò che resta della diplomazia multilaterale. Sotto Trump, l’alleanza atlantica si è incrinata.
Il suo ritorno alla Casa Bianca con una visone punitiva, rischia di aprire ancora di più le porte dell’Eurasia al disegno autoritario.

Per Mosca, Trump è il caos che può scongelare l’Ucraina. Per Pechino, è l’avversario perfetto: divisivo, prevedibile, ideologicamente ostile. Ma in questo paradosso sta la forza dell’asse Russia-Cina: nel sapere che un’America destabilizzata destabilizza anche l’Occidente intero.
C’è però un’altra verità, meno raccontata. Nonostante la crescita degli scambi (oltre 230 miliardi nel 2024), nonostante l’allargamento delle piattaforme comuni, la relazione russo-cinese è percorsa da frizioni profonde. In Asia Centrale, la Cina ha surclassato Mosca come investitore. Nell’Artico, i due paesi si contendono le rotte commerciali e le risorse. Nei fori internazionali, Pechino parla di pace mentre Mosca mostra i muscoli. La simmetria si spezza ogni giorno di più. E dietro l’apparente unità strategica si nasconde il sospetto: quanto durerà?

L’Occidente, nel frattempo, osserva. Ma osservare non basta. Per contenere l’espansione di questo asse, non serve demonizzare: serve capire. Capire che Russia e Cina non sono un monolite, ma due potenze con obiettivi diversi e ambizioni divergenti. Capire che si può disinnescare l’una senza rafforzare l’altra. Capire che in questa partita la posta in gioco non è solo il potere, ma il significato stesso delle parole che lo accompagnano.
Trasparenza, responsabilità, libertà: sono questi i nomi che rischiamo di perdere, se non saremo capaci di raccontarli meglio di chi li vuole riscrivere.

Perché, come sapeva Sartre, il potere non è solo ciò che si esercita. È anche — e soprattutto —ciò che si dice.

di Francesco Vilotta