Salvini contro la legge di Bilancio: il leader della Lega alza lo scontro sulle pensioni mentre Meloni punta al rientro dal deficit in vista del voto 2027

Questa volta, sulla legge di Bilancio, Matteo Salvini non si limita ai malumori di corridoio. Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e Trasporti rivendica apertamente il diritto di alzare la voce contro una manovra che considera troppo prudente, ingiusta verso il suo dicastero e soprattutto lontana dalle aspettative del tradizionale elettorato leghista, quello che chiede da anni interventi robusti sulle pensioni. “Va bene essere soddisfatti dei giudizi delle agenzie di rating o per lo spread ai minimi”, ha sbottato, “ma i cittadini votano la Lega anche e soprattutto per salvare le pensioni”.

Nella maggioranza la tensione è palpabile. Salvini individua anche un bersaglio interno preciso: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, descritto come il garante di una linea di rigore che, nelle letture più critiche dentro il Carroccio, avrebbe finito per sacrificare le bandiere identitarie del partito in nome dei vincoli europei e dei mercati. A fare da coro alle uscite del leader leghista c’è il capogruppo alla Camera Massimiliano Romeo, che ha parlato apertamente di un ritorno del “celodurismo lombardo”, rievocando un’epoca in cui la Lega si presentava come voce ruvida e immediata del Nord produttivo.

Lo scontro arriva dopo mesi in cui il rapporto fra Salvini e Giorgia Meloni è stato segnato da una competizione strisciante. Fin dall’insediamento del governo, il segretario della Lega ha cercato di rilanciare un partito in evidente difficoltà nei sondaggi, spesso usando come terreno di battaglia proprio i dossier più sensibili dell’esecutivo. Di fronte a una presidente del Consiglio che ha consolidato, caso pressoché unico nella storia repubblicana recente, un livello di consenso crescente dopo tre anni e mezzo a Palazzo Chigi, il Carroccio è rimasto intrappolato tra tensioni interne e logoramento: dal generale Roberto Vannacci che entra nello spazio politico leghista alle fibrillazioni sul ruolo di Luca Zaia, senza che si intravedano inversioni di rotta.

La miccia che ha acceso il conflitto attuale è stato il maxi-emendamento alla manovra, con la stretta sui trattamenti pensionistici. Una scelta che ha fatto riemergere la memoria delle promesse del 2022, quando Salvini tuonava: “Se non azzero la riforma delle pensioni della Fornero siete titolati a spernacchiarmi”. Quelle parole, rilette oggi alla luce di una legge di Bilancio che interviene ancora in senso restrittivo sul fronte previdenziale, diventano un boomerang politico per il leader leghista, costretto a rivendicare almeno il ruolo di oppositore interno di una linea che sente lontana dal suo elettorato.

Ma le ragioni del malcontento non sono solo simboliche. Il ministero più colpito dai tagli del governo è proprio quello delle Infrastrutture e Trasporti, affidato a Salvini, che vede ridursi le risorse di oltre 520 milioni di euro. Un segnale che il vicepremier legge come penalizzante sul piano politico e operativo, proprio mentre la Lega vorrebbe intestarsi la stagione delle grandi opere e delle infrastrutture strategiche per il Paese.

Sul piano complessivo, la legge di Bilancio 2026 viene descritta come una manovra “mai così micragnosa”: circa 18 miliardi di euro, molto meno rispetto allo scorso anno, quando il valore complessivo era intorno ai 24 miliardi, saliti a 28 con i primi decreti attuativi, e lontanissima dai 35 miliardi della prima manovra firmata da Meloni nel 2023 (quella del 2022 era stata di fatto ereditata dal governo Draghi). A fronte di una pressione fiscale che resta attestata sul 42,8 per cento raggiunto nel 2025, la capacità espansiva della nuova legge di Bilancio risulta limitata, soprattutto agli occhi di chi avrebbe voluto misure più generose su pensioni, famiglia e infrastrutture.

Dietro questa prudenza, però, c’è una strategia ben precisa della presidente del Consiglio. Con un consenso ormai stabilizzato intorno al 30 per cento, la leader di governo può permettersi una manovra che vale solo lo 0,8 per cento del Pil, puntando a una ricaduta positiva sui conti pubblici: portare il deficit italiano sotto la soglia del 3 per cento, a fronte del 3,3 per cento concordato con Bruxelles. L’obiettivo è uscire con un anno di anticipo dalla procedura per disavanzo eccessivo aperta dall’Unione europea nel 2024.

Una volta comunicato alla Commissione europea il rientro virtuoso del deficit e ottenuto il via libera alla chiusura della procedura, il governo potrà rivendicare credibilità e affidabilità sui conti. E, soprattutto, avrà margini politici per impostare la successiva legge di Bilancio in una chiave completamente diversa. La manovra del 2026 coinciderà infatti con la vigilia del voto del 2027: sarà quella, nelle intenzioni della presidente del Consiglio, la finanziaria “espansiva”, ricca di interventi mirati, con cui presentarsi agli elettori.

In questo quadro, la legge di Bilancio attuale diventa una sorta di passaggio intermedio: un sacrificio di oggi in nome della possibilità di una maggiore generosità domani, a ridosso della campagna elettorale. Una scelta che premia la tenuta del governo e la narrativa della responsabilità contabile, ma che espone Lega e Forza Italia al rischio di pagare un prezzo immediato in termini di consenso, strette tra la disciplina di bilancio e la necessità di rispondere alle attese dei propri mondi di riferimento.

È qui che si colloca lo scontro fra Meloni e Salvini. La presidente del Consiglio guarda al quadro complessivo, al rapporto con Bruxelles, al percorso di uscita dalla procedura di infrazione e alla costruzione di una manovra pre-elettorale il più possibile favorevole nel 2026. Il leader della Lega, invece, guarda ai suoi elettori, alle promesse sulle pensioni, ai tagli che colpiscono il suo ministero e al rischio di un ulteriore indebolimento di un partito già in difficoltà nei sondaggi.

Gli italiani che entreranno nella cabina elettorale nel 2027 si troveranno di fronte il risultato di queste scelte intrecciate: da una parte il racconto di un governo che ha riportato i conti sotto controllo e ha riconquistato fiducia in Europa; dall’altra le ferite sociali e politiche lasciate da anni di manovre prudenti, che oggi alimentano la protesta interna di Salvini e, domani, potrebbero pesare sul bilancio elettorale della stessa maggioranza.