Sicurezza del potere: il Decreto che punisce il dissenso e l’umano

Roma, Camera dei deputati dichiarazioni di voto e voto finale sul decreto Sicurezza nella foto la protesta delle opposizioni al centro Elly Schlein

L’Italia ha paura. Ma non della povertà, dell’ingiustizia sociale, della violenza e della solitudine che popola le città e svuota i paesi. L’Italia ha paura dell’umano. E allora lo punisce.

È questo, in fondo, il cuore feroce e silenzioso del nuovo Decreto Sicurezza. Un corpo giuridico di 39 articoli che non cura, non previene, non protegge. Reprime. E legittima la repressione con il linguaggio della legalità. Si alzano le pene, si abbassano i diritti. Si moltiplicano i reati, si sbriciola la libertà. Tutto ciò, nel nome dell’ordine.

Ma di quale ordine stiamo parlando?

  • L’ordine contro gli occupanti.
  • L’ordine dei forti contro i fragili.
  • L’ordine contro i corpi che si oppongono.
  • L’ordine dei poliziotti contro i ragazzi.

È un ordine che sa di galera. Che sa di manganello. Che sa di polvere e cenere. Questo decreto è un manifesto ideologico. Dietro la maschera della sicurezza, c’è la messa al bando di ogni gesto di disobbedienza. Non solo la violenza, ma anche la tenerezza di un corpo seduto a terra per bloccare una strada. Non solo la minaccia, ma anche il dissenso. È stato chiamato “anti Gandhi” – e non a torto – perché criminalizza la resistenza passiva. La trasforma in reato. La traduce in carcere.

L’umanità, invece, è ciò che resiste. Le madri detenute, i migranti che cercano una sim per chiamare casa, i giovani che coltivano cannabis light come scelta consapevole, i ragazzi che scrivono sui muri. Tutti diventano sospetti, colpevoli, bersagli. E se protestano, sono rivoltosi. Se occupano una casa vuota, sono criminali. Se imbrattano un muro, sono ecovandali.

La nuova norma sulle detenute madri è un pugno allo stomaco. Non c’è più il vincolo del rinvio pena. Si valuterà caso per caso. Ma chi giudicherà se una madre è “pericolosa”? E cosa significa “pregiudizio alla crescita del minore”? È forse peggiore di un carcere il grembo che ha nutrito?

Anche qui il potere si sostituisce all’umano, si fa giudice della maternità, della colpa, della redenzione.

Nessuno chiede che la maternità renda immuni da ogni responsabilità. Ma quando la legge inizia a trattare la fragilità come una colpa, e la maternità come un rischio da contenere, allora qualcosa si è rotto. La giustizia dovrebbe misurarsi con la vita reale, non con lo stereotipo del controllo. E invece si torna a giudicare, non a comprendere. A sospettare, non a proteggere.

E ancora: si premiano economicamente gli agenti imputati per violenze. Si estende l’impunità ai servizi segreti. Si semplificano i CPR, si costruiscono più velocemente. Si indossano bodycam, ma non diventano obbligatorie. Si porta un’arma, anche fuori servizio. Si governa per paura. Si arma lo Stato. Ma non si disarma il dolore.

È un decreto che costruisce un mondo senza poesia.

Perché la poesia sta dalla parte dell’illegalità dell’anima, di chi dice no, di chi protesta, di chi stende una bandiera su un balcone. La poesia è contestazione. È rivolta. È infrazione. E allora va repressa. Perché il dissenso è il germe dell’utopia. E chi sogna – in questo Paese – è colpevole.

Non è più tempo di parlare di destra o di sinistra. È tempo di dire che siamo di fronte a una mutazione antropologica. Che la legge si sta sostituendo alla giustizia. Che lo Stato si sta sostituendo all’umanità. Che la sicurezza è diventata il nome nuovo della paura. E la paura è diventata la maschera del potere.

C’è un’Italia che non ha più voce. Che non ha più casa. Che non ha più diritto a protestare. Che non ha più neppure il diritto di starsene in silenzio su una strada, o in un’aula, o in un carcere. Un’Italia che viene imbavagliata con la burocrazia, spinta nell’illegalità con la retorica dell’ordine, schiacciata sotto l’etichetta di pericolo pubblico.

Ma bisogna dirlo con la parola che non hanno ancora ucciso: la sicurezza non è un decreto. È una carezza. È una casa per chi non ce l’ha. È una scuola che insegna a pensare. È una madre libera di crescere suo figlio. È un ragazzo che manifesta, senza paura di finire in galera. È un popolo che può ancora dire no. E invece, ci stanno insegnando a tacere.

Roma, manifestazione nazionale contro i Decreti Sicurezza

Ma cosa prevede davvero questo Decreto?

Dietro la retorica della sicurezza, si snoda una lunga serie di disposizioni che riscrivono interi articoli del codice penale. Si introduce il reato di occupazione arbitraria di immobili: fino a sette anni di carcere per chi entra in una casa vuota e la abita. Viene previsto un iter d’urgenza per restituire l’immobile al proprietario, e si salva dalla pena solo chi collabora e obbedisce. L’ordine della proprietà, ancora una volta, sopra ogni bisogno.

Sulle manifestazioni arriva una stretta brutale, e sarà possibile arrestare anche a posteriori, in flagranza “differita”. La protesta viene così sterilizzata. Dissenso sì, ma senza alzare la voce.

Ma attenzione: non si tratta di legittimare ogni gesto, ogni sfida all’ordine costituito, ogni forma di protesta che sconfina nella violenza. Il punto non è assolvere, ma capire. Perché quando lo Stato inasprisce le pene invece di interrogarsi sulle cause, quando reprime il gesto senza ascoltarne il grido, allora non difende la legalità: la svuota. Il disordine che viene da sotto nasce sempre da un ordine malato in alto.

Il blocco stradale, anche se simbolico e non violento, diventa reato. La norma è stata ribattezzata “anti Gandhi” perché colpisce proprio quelle forme di protesta civile che hanno fatto la storia dei diritti umani. Sedersi su una strada può costare sei anni di carcere. L’obbedienza, anche corporea, torna a essere un dovere.

Anche la cannabis light, tollerata da anni, viene colpita duramente: coltivarla, venderla, trasportarla sarà vietato, anche se ha un contenuto di THC inferiore ai limiti. La canapa leggera viene parificata alle droghe pesanti.

Le detenute madri non avranno più automaticamente diritto al rinvio della pena: la maternità torna a essere sospetta. Se il giudice ritiene che la donna possa commettere altri reati, o che la sua presenza sia dannosa per il figlio, il carcere non verrà evitato. La maternità, insomma, diventa condizionata.

Cambia anche il volto della repressione carceraria: istigare alla disobbedienza da dentro un penitenziario sarà un’aggravante. E la “rivolta” – anche simbolica – potrà valere fino a cinque anni di galera. Stessa sorte per i migranti trattenuti nei CPR. La resistenza passiva, anche lì, diventa reato.

Nel frattempo, si autorizzano le forze dell’ordine a usare le bodycam – ma senza obbligo. E si permetterà agli agenti di portare alcune armi anche fuori servizio, senza licenza. Chi imbratta un bene pubblico per contestare le istituzioni – come fanno gli attivisti ambientali – rischierà fino a un anno e mezzo di carcere.

Infine, chi vende una sim telefonica a un migrante dovrà verificare la sua identità: basta il documento, non serve più il permesso di soggiorno, ma le multe e la sospensione dell’attività sono in agguato per i commercianti distratti.

Tutto questo – e molto altro – forma l’impalcatura del nuovo decreto. Non una risposta alla criminalità. Ma un progetto politico, pedagogico, identitario. Un codice di disciplina e punizione. Un manuale di obbedienza di Stato.

Questo decreto non educa. Non previene. Non ascolta. Si limita a punire. Ma uno Stato giusto non ha solo il compito di mantenere l’ordine: ha il dovere di generare fiducia. Di investire nella consapevolezza, nella prevenzione, nella cultura. Perché un cittadino che sbaglia va corretto, non annientato. E chi vive nella marginalità va incluso, non criminalizzato.

E proprio per questo, comprenderlo è già un atto di resistenza.

di Francesco Vilotta