Dietro il profumo del cuoio e le luci dorate delle boutique, si nasconde un’ombra lunga. La procura di Milano accende i riflettori su Tod’s, il marchio del lusso fondato dai fratelli Diego e Andrea Della Valle, simbolo di eleganza e made in Italy. L’accusa è pesante: lungo la filiera produttiva, negli opifici che confezionano borse e scarpe, operai cinesi lavoravano fino a quattordici ore al giorno, anche la notte, per 2 euro e 75 centesimi l’ora.
Il pm Paolo Storari parla apertamente di “condizioni ottocentesche”, di dormitori improvvisati e di turni massacranti in un contesto di “para-schiavitù”. Non si contesta un reato diretto a Tod’s, ma una “agevolazione colposa” dello sfruttamento. In parole semplici: l’azienda non avrebbe vigilato a sufficienza sui subappalti della propria catena produttiva. Un’accusa che, se confermata, costerebbe al marchio non solo un’inchiesta giudiziaria ma anche un commissariamento d’immagine.
Nella richiesta depositata a dicembre 2024, poi integrata a febbraio, la procura chiede l’amministrazione giudiziaria dell’azienda. Una misura straordinaria, prevista nei casi in cui un’impresa – pur non essendo direttamente responsabile di un reato – trae vantaggio da condotte illecite compiute dai propri fornitori. Ma la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano si è dichiarata incompetente, rimandando il fascicolo ad Ancona, dove Tod’s ha la sede legale. Ora la Cassazione dovrà decidere se la richiesta potrà essere accolta.
Nel frattempo, le carte dei carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro raccontano un sistema di sfruttamento capillare. Gli operai dormivano all’interno dei laboratori in cui lavoravano, pagando 150 euro al mese ai titolari cinesi per un giaciglio tra i tavoli da cucito. Le finestre chiuse, la luce al neon accesa a tutte le ore, e l’odore del cuoio che si mescola a quello del cibo e della colla. Le produzioni procedevano a ciclo continuo, anche nei festivi: “Nei giorni di Natale si lavora di più – si legge negli atti – perché i controlli sono pressoché nulli”.
Un racconto che stride con l’immagine costruita in decenni di successi. Tod’s, nata come piccola fabbrica di calzature nelle Marche, è oggi una delle case di moda più note al mondo. Un colosso con oltre 1,1 miliardi di ricavi nel 2023, proprietario dei marchi Hogan, Fay e Roger Vivier, e considerato da sempre un baluardo del lusso etico e dell’artigianalità italiana.
Per questo l’indagine colpisce duro. Non solo l’azienda dei Della Valle, ma l’intero settore della moda italiana, già scosso da casi simili. Dalle pelletterie ai distretti calzaturieri, il problema delle subforniture fantasma – micro-laboratori nascosti che operano ai margini della legalità – è noto da anni ma continua a riaffiorare, nonostante i controlli.
L’ipotesi della procura è che Tod’s, come altri grandi marchi, si sia affidata a una rete di terzisti di cui conosceva solo in parte la reale struttura. Nella catena di appalti e subappalti, la responsabilità diretta si diluisce, ma il risultato resta: un prodotto finito che nasce da un lavoro sottopagato e invisibile. “Una situazione che non può più essere tollerata”, ha dichiarato Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy. “Stiamo preparando una legge che obblighi ogni brand a certificare la sostenibilità della propria filiera, sia ambientale che sociale. Il made in Italy deve essere non solo bello e ben fatto, ma anche pulito e legale”.
Un intervento politico che cerca di contenere i danni d’immagine di un sistema che rischia di implodere sotto il peso delle sue contraddizioni. Da un lato, l’elogio continuo all’eccellenza artigiana; dall’altro, il ricorso a manodopera sfruttata, spesso straniera, che lavora in silenzio per garantire tempi e margini.
Per la procura, si tratta di una forma moderna di caporalato industriale, in cui le grandi maison restano formalmente estranee alle violazioni ma di fatto ne beneficiano. E il giudice Storari, già noto per le sue inchieste sulla corruzione economica, non ha usato mezzi termini: “Bisogna intervenire per evitare conseguenze più gravi per le vittime e preservare l’integrità del mercato”.
Dentro l’azienda, silenzio assoluto. Tod’s si limita a ribadire la fiducia nella giustizia e a confermare “la piena collaborazione con le autorità competenti”. Nessuna dichiarazione pubblica, nessuna polemica: la strategia è aspettare. Ma la questione va oltre le aule giudiziarie. Riguarda la credibilità di un intero sistema produttivo. Perché se un brand come Tod’s, sinonimo di qualità e stile, si scopre vulnerabile al lato oscuro della filiera, allora l’intero modello del lusso all’italiana è chiamato a un bagno di realtà.
Nel frattempo, nei capannoni che riforniscono il made in Italy, la vita continua come sempre: turni che non finiscono, macchine da cucire accese di notte, operai invisibili che guadagnano in un mese quello che una borsa costa in un giorno di vendita. La contraddizione è tutta lì, nel corto circuito tra la bellezza che si mostra e il sudore che la costruisce.
E forse questa indagine, al di là delle responsabilità penali, è già una sentenza morale: quella che ricorda al Paese che non può esserci eccellenza senza dignità.