Un anno dopo la cerimonia d’inaugurazione, celebrata con fanfare il 14 ottobre 2024, il centro per migranti di Gjader, nel nord dell’Albania, è oggi un luogo sospeso nel nulla. File di container metallici, bandiere scolorite dal vento e decine di uomini in divisa che presidiano un perimetro dove nessuno arriva e nessuno parte. Doveva essere il primo tassello di una strategia “rivoluzionaria” per alleggerire la pressione sui porti italiani. È diventato invece una cattedrale nel deserto, costata ai contribuenti una cifra astronomica: oltre un milione di euro per ogni migrante passato da quelle sbarre.
Sulla carta i posti erano 880, di cui 400 teoricamente operativi. In realtà, il centro non è mai andato oltre poche decine di presenze. Il carcere interno, pensato per i detenuti autori di reati durante la permanenza, non ha mai aperto. E nei moduli prefabbricati dormono solo poliziotti e agenti penitenziari, impegnati a sorvegliare un vuoto costoso e silenzioso. «I centri in Albania fun-zio-ne-ran-no», aveva scandito la premier Giorgia Meloni in più di un comizio. Ma di funzionante, qui, non c’è nulla.
Con oltre 74 milioni spesi per la costruzione e 133 milioni per la gestione, affidata alla cooperativa Medihospes, il Cpr di Gjader è il più costoso mai realizzato. E la storia dell’appalto ha i tratti dell’assurdo. Secondo un’inchiesta di Altraeconomia, Medihospes non ha mai firmato il contratto con la prefettura di Roma, pur avendo vinto la gara diciassette mesi fa. Il termine massimo previsto per la formalizzazione era di sessanta giorni. Eppure il ministero dell’Interno ha continuato a inviare personale e fondi, in un paradosso amministrativo che nessuno sembra voler chiarire.
Nel frattempo, la cooperativa ha aperto una filiale a Tirana per assumere personale locale, a costi più bassi. «All’inizio – racconta un ex operatore – gli italiani prendevano tremila euro al mese, più del doppio della paga media albanese. Poi sono arrivati i tagli e l’assunzione di lavoratori del posto». La promessa di un “modello da esportare” si è trasformata in una catena di stipendi gonfiati, mezze verità e uomini in uniforme che vivono nei container, mentre le forze di polizia alloggiano in un hotel con piscina, a spese dello Stato
Dai dati ottenuti tramite accesso agli atti, tra ottobre 2024 e luglio 2025 a Gjader sono state trattenute 111 persone. Nella maggior parte dei casi, si trattava di migranti poi riaccompagnati in Italia dopo aver chiesto asilo, poiché la Corte di giustizia europea ha stabilito che non è possibile trattenere richiedenti in un Paese extra-Ue. Nonostante ciò, il centro è stato trasformato in Cpr il 28 marzo 2025, diventando di fatto l’undicesimo centro di permanenza italiano, ma geograficamente fuori dai confini dell’Unione. Una decisione che, secondo ActionAid, rasenta l’illogico: «Si trasferiscono in Albania persone già trattenute in Italia, dove ci sono oltre 260 posti liberi. Poi si devono comunque rimpatriare dall’Italia».
Nel frattempo, i conti lievitano. In soli cinque giorni di operatività nel 2024, Medihospes ha ricevuto 570mila euro. Le spese per vitto, alloggio e sicurezza delle forze di polizia hanno toccato quota 528mila euro, mentre ogni agente penitenziario percepisce un’indennità giornaliera di 130 euro lordi, più viaggio e vitto, per un totale mensile di circa 4mila euro oltre allo stipendio. Il carcere, mai aperto, continua però a essere sorvegliato da quindici agenti fissi.
Gjader è una zona d’ombra istituzionale. Né giornalisti né parlamentari possono accedervi liberamente. Il Viminale ha ristretto i poteri ispettivi dei garanti dei detenuti, mentre Medihospes ha imposto ai dipendenti clausole di riservatezza draconiane. Le poche testimonianze raccolte parlano di un centro “blindato”, dove anche la logistica dei trasferimenti è coperta da segreto: non più pattugliatori della Marina, ma “vettori disponibili secondo necessità”, come spiega in burocratese il ministero. In pratica, nessuna trasparenza e responsabilità frammentata in un sistema di scatole cinesi. A denunciare l’oscurità è anche Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Polizia penitenziaria: «Ci occultano qualsiasi informazione. L’unico rimpatrio effettivo è stato quello di un nostro collega, sospettato di parlare con i sindacati».
Per il governo Meloni, il progetto albanese doveva essere la prova concreta che “l’Italia non è più il campo profughi d’Europa”. Oggi rappresenta il suo fallimento simbolico. Secondo i calcoli di Domani, in un anno ogni migrante transitato da Gjader è costato oltre un milione di euro, a fronte di una struttura quasi sempre vuota. «Mentre i migranti continuano a morire davanti alle nostre coste, il governo butta soldi nei Cpr in Albania», ha attaccato Riccardo Magi di Più Europa.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi contava sull’entrata in vigore anticipata del Patto europeo per l’asilo e l’immigrazione, che dovrebbe armonizzare le regole sui rimpatri. Ma il Patto è ancora impantanato a Bruxelles, e la “fase di test” del centro di Gjader è ormai un costoso esperimento fallito. A oggi, l’unica certezza è che l’Albania, promessa come “porta d’Europa”, è diventata il simbolo di un confine che non esiste, sorvegliato da uomini che non hanno nessuno da sorvegliare. Una terra di mezzo dove lo Stato italiano paga per tenere acceso il faro di una nave che non attracca mai.