Non tutte le X del mondo rimandano alla guerra, e non ogni gesto atletico va letto con la lente della propaganda. Lo sa bene Elia Viviani, oro mondiale nell’inseguimento a squadre e protagonista, suo malgrado, di una polemica surreale nata dai social e finita in politica. A innescarla è stato Roberto Vannacci, eurodeputato leghista ed ex generale, che dopo la vittoria dell’azzurro ai mondiali ha scritto un post destinato a infiammare la rete: «Un’altra Decima per l’Italia».
Il riferimento era alla Decima Mas, la flottiglia militare repubblichina, evocata da Vannacci per commentare la “X” disegnata da Viviani con le braccia al traguardo. Una X che, secondo il corridore, aveva tutt’altro significato. «Chi mi conosce e conosce il ciclismo sa perfettamente il significato di quel gesto», ha spiegato il campione in un’intervista a BiciSport. «Non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo. È un simbolo sportivo, personale, il modo con cui ho voluto chiudere la mia carriera».
Per Viviani, 35 anni, quello di Manchester è stato il canto del cigno, l’ultima volata dopo quindici anni di corse, sacrifici e vittorie. La X, spiega chi gli è vicino, rappresentava la fine di un capitolo, il segno di una pagina che si chiude. Ma nel clima politico attuale, anche un gesto innocuo può diventare miccia.
«Un’altra Decima per l’Italia», ha scritto Vannacci, pubblicando la foto del ciclista con le braccia incrociate. In poche ore il post è diventato virale, rimbalzando su giornali e televisioni. Sui social, tifosi e colleghi hanno subito preso le difese del corridore: “Ma quale Decima Mas, quella è solo una X!”, “Un gesto tecnico, non politico”.
Le polemiche, però, non si sono fermate lì. Qualcuno ha persino chiesto chiarimenti al CONI, altri hanno accusato l’ex generale di “strumentalizzare lo sport per propaganda”. Viviani, rimasto in silenzio per qualche giorno, ha scelto la via della sobrietà, ma con fermezza. «Ho letto tutto con amarezza – ha detto –. È assurdo che un gesto sportivo possa essere interpretato in questo modo. La mia X non ha nulla di politico. È il simbolo della fine della mia carriera, del mio ultimo traguardo. Chi vive il ciclismo lo sa: non esiste alcun doppio senso».
Il ciclista, tornato dalle vacanze, ha poi lasciato intendere che potrebbe muoversi per vie legali. «Valuterò se e come agire nei prossimi giorni», ha dichiarato, aggiungendo che la sua immagine di atleta e uomo di sport non può essere associata a contesti che nulla hanno a che fare con la sua storia.
Dall’ambiente ciclistico è arrivato un coro unanime di solidarietà. Il ct della Nazionale, Marco Villa, ha definito la polemica “fuori luogo”: «Conosco Elia da anni, è un professionista serio, un atleta che ha sempre portato rispetto per la maglia azzurra e per il Paese. Cercare significati nascosti in un gesto di gioia è ridicolo».
Anche diversi colleghi, da Filippo Ganna a Jonathan Milan, hanno espresso sostegno al compagno di squadra. “Quella X – ha scritto Ganna su Instagram – è la X di una carriera straordinaria. Elia non ha mai avuto bisogno di simboli per dimostrare il suo valore o il suo amore per l’Italia”.
Intanto Vannacci non ha fatto marcia indietro, ma ha scelto il silenzio, lasciando che il polverone si depositasse. Sui suoi profili resta il post originale, senza ulteriori commenti. E intorno alla vicenda si è aperto un dibattito più ampio: fino a che punto è lecito politicizzare lo sport?
Viviani, per parte sua, preferisce tornare a parlare di pedali e fatica, di strade e pista, di futuro. “La mia carriera finisce qui, ma il ciclismo resta casa mia – ha detto –. Voglio restituire qualcosa a questo mondo, magari lavorando con i giovani. Di certo, non permetterò che la mia immagine venga usata per fini che non mi appartengono”.
Dietro il suo sorriso gentile e la voce calma, si intravede la delusione di chi ha dovuto difendere l’ovvio. «Sono un atleta, non un politico – ha concluso –. Le braccia incrociate erano un gesto di gratitudine, una X che chiude un percorso e ringrazia chi mi ha accompagnato in questa avventura».
Una spiegazione limpida, che forse non avrebbe dovuto neppure essere necessaria. Ma in un Paese dove anche una lettera dell’alfabeto può diventare terreno di scontro ideologico, Viviani ha dovuto ricordare una cosa semplice: che lo sport, a volte, è solo sport.







