L’ascesa di Zohran Mamdani ha il sapore di una narrazione potente: figlio dell’immigrazione, giovane, carismatico, militante, primo sindaco musulmano e sud-asiatico di New York. Una traiettoria personale che incarna in modo quasi scolastico la promessa americana. Eppure, paradossalmente, è proprio l’America delle opportunità a porre un limite invalicabile sul suo futuro politico: Mamdani non potrà mai diventare presidente degli Stati Uniti.
La ragione non sta nella sua agenda politica o nella capacità di costruire consenso, ma in una clausola scolpita nella Costituzione. L’Articolo 2 stabilisce che soltanto un “natural born citizen” può sedere nello Studio Ovale. La definizione, nella prassi giuridica, è chiara: può correre alla presidenza chi è cittadino statunitense dalla nascita e, nella grande maggioranza dei casi, nato sul territorio nazionale. Mamdani è arrivato negli Stati Uniti da bambino, proveniente dall’Uganda, e ha ottenuto la cittadinanza nel 2018. Non basta.
Dietro questa regola si intravede la fragile architettura politica degli albori della repubblica. I padri fondatori, reduci dalla guerra d’indipendenza, temevano interferenze straniere e ipotetici leader “paracadutati” da potenze rivali. Il requisito di nascita naturale venne pensato come un argine, un modo per proteggere un esperimento democratico appena nato. Due secoli e mezzo dopo, in un Paese in cui quasi un americano su sette è nato fuori dagli Stati Uniti e in cui il pluralismo etnico e culturale è divenuto marchio identitario, quella norma appare a molti come un relitto del passato. Ma resta lì, immutata.
Il nodo non riguarda solo Mamdani. La storia recente abbonda di casi che hanno sfiorato lo stesso paradosso. Arnold Schwarzenegger, due volte governatore della California e popolarissimo ben oltre i confini del partito repubblicano, ha più volte sostenuto l’idea di correre per la Casa Bianca. Non ha mai potuto farlo: nato in Austria, naturalizzato, ma non “natural born”.
Ci sono poi le figure di frontiera, quelle che i giuristi osservano con maggiore attenzione. Ted Cruz, nato in Canada da madre americana, ha potuto concorrere alle primarie repubblicane nel 2016 perché riconosciuto cittadino dalla nascita. Lo stesso principio è valso per Tulsi Gabbard, oggi alla guida dell’intelligence, nata nelle Samoa Americane da genitori statunitensi. Entrambi casi che hanno alimentato dibattiti, sollevato ricorsi, e mostrato quanto la questione sia delicata.
Il precedente più rumoroso resta però quello costruito artificialmente da Donald Trump contro Barack Obama. Il presidente alimentò per anni dubbi infondati sulla nascita dell’allora capo della Casa Bianca, sostenendo che non fosse americano. Obama nacque a Honolulu nel 1961, dunque pienamente cittadino per diritto di suolo. La campagna, priva di basi, indicò tuttavia la potenza simbolica del tema: l’origine di un leader resta ancora, negli Stati Uniti, un terreno sensibile e identitario.
Mamdani entra in questo solco con una particolarità ulteriore: non solo non è nato su suolo americano, ma ha ottenuto la cittadinanza in età adulta. Per lui la barriera costituzionale è netta. Tecnica, formale, eppure profondamente politica. Perché se la sua figura divide e affascina, il dibattito che suscita va oltre il suo caso personale: che cosa significa, oggi, essere “sufficientemente americano” per guidare il Paese?
La risposta, al momento, resta ancorata alla lettera della legge. Nessuna maggioranza politica recente ha mostrato reale volontà di affrontare una riforma costituzionale su questo punto. Troppo complessa, troppo simbolica, troppo esposta a polemiche. E così l’America, che ha eletto figli di migranti, cattolici e protestanti, afroamericani e miliardari outsider, continua a escludere dalla presidenza chi, come Mamdani, incarna in forma plastica la traiettoria di milioni di cittadini nati altrove.
La sua elezione a sindaco di New York segna un passaggio epocale per la sinistra americana e per le comunità che rappresenta. Ma allo stesso tempo illumina una contraddizione: il Paese che più celebra la mobilità sociale e la forza della diversità resta stretto dentro un vincolo ottocentesco, figlio della paura più che dell’inclusione. Per Mamdani la strada verso Washington si ferma qui. Per gli Stati Uniti, invece, la domanda resta aperta: fino a che punto un Paese di immigrati può permettersi di tenere chiusa la porta più alta proprio a chi quel viaggio lo ha compiuto?







