CasaPaese è diventato un simbolo ormai conosciuto in tutta Italia. Ha in sé il concetto di rispetto nei confronti dell’individualità delle persone, e un senso di natura Esistenziale e non Assistenziale.
La sua fondatrice Elena Sodano ha sempre sostenuto che le persone con demenza non possono essere istituzionalizzate all’interno delle residenze sanitarie, perché “l’esternazione della malattia le fa diventare delle persone anarchiche, che non possono essere in grado di rispettare le regole”. Abbiamo intervistato Elena Sodano, fondatrice di CasaPaese a Cicala in provincia di Catanzaro.
Cosa l’ha spinta a immaginare un luogo dove la salute mentale viene affrontata non con muri e farmaci, ma con relazioni, comunità e vita condivisa?
“Ho immaginato CasaPaese perché sentivo che qualcosa, nel modo in cui il mondo guardava la demenza, era profondamente ingiusto. Ogni giorno, nel nostro centro diurno, incontravo persone con Alzheimer e altre forme di demenza che la società considerava ormai “finite”. Persone lasciate ai margini, nascoste per vergogna, rinchiuse in una solitudine che faceva più male della malattia stessa. Eppure, nei loro occhi, io vedevo ancora luce, desiderio, emozione, bisogno di relazione. C’era ancora tanta vita, solo che nessuno la vedeva più.”
Ed è stato questo il momento in cui lei ha capito l’importanza d intervenire su questo
“ Si è stato allora che ho compreso che non serviva una struttura di cura, ma un luogo di vita. CasaPaese nasce dal bisogno di restituire libertà, normalità e appartenenza a chi la società aveva confinato nel silenzio. La cura non è contenere, ma “liberare la persona dal manicomio che portiamo dentro di noi”.
E quei manicomi, purtroppo, esistono ancora. Sono invisibili, ma reali
“CasaPaese è la mia risposta a tutto questo. Insieme alla mia équipe abbiamo voluto che la malattia di Alzheimer e le altre demenze fossero affrontate con relazioni, comunità e vita condivisa. Perché è nella relazione che la persona ritrova sé stessa. La guarigione non avviene in solitudine, ma in compagnia. È questo il cuore pulsante di CasaPaese: la compagnia come medicina, la vita condivisa come terapia.”
Quando una persona con demenza si sente ancora parte del mondo?
“Quando può camminare per il paese, parlare con un vicino, sedersi al bar o curare un fiore, la malattia arretra. E torna a emergere ciò che nessuna diagnosi può cancellare: l’essere umano nella sua interezza.”
“CasaPaese” si trova in un piccolo borgo della provincia di Catanzaro. Quanto contano il contesto, la bellezza del luogo e la dimensione umana del vivere insieme nel percorso di cura?
“Il borgo di Cicala non è un semplice sfondo: è parte della cura. Quando abbiamo scelto questo piccolo borgo, sapevo che non stavamo scegliendo un luogo, ma un modo di vivere. Qui la bellezza non è decorativa: è una bellezza che respira, accoglie, cura. È fatta di vicoli stretti, di pietre antiche che hanno memoria, di voci che rimbalzano tra una casa e l’altra come abbracci sonori. Il borgo restituisce senso di continuità, orientamento umano e appartenenza. Ogni mattina i nostri ospiti escono da CasaPaese, camminano nella piazza, vanno al mercato, salutano i negozianti, osservano i bambini che corrono. Non fanno “attività terapeutiche”, ma vivono. E nel vivere, la terapia accade: nel borgo la cura diventa circolare.”
Anche la comunità trae vantaggio dalla presenza di questa struttura
“ La comunità cura la persona con demenza, e la persona con demenza, con la sua presenza, la sua lentezza, cura la comunità. L’uomo non guarisce quando gli togli la sofferenza, ma quando gli restituisci un perché. E quel perché nasce da un luogo che ti riconosce, che ti chiama per nome, che ti dà uno spazio nel mondo.”
Cicala rende visibile ciò che altrove resterebbe nascosto
“La demenza non è la fine della vita, ma l’inizio di un nuovo modo di abitarla. Un modo fatto di bellezza, lentezza, familiarità, contatto umano. Non di corridoi bianchi e porte chiuse, ma di piazze, bar, profumi di casa e volti amici. Qui la cura è un fatto pubblico, comunitario. La persona con demenza non è un problema da gestire, ma un cittadino da rispettare e accogliere. E per questo ringrazio l’amministrazione comunale e il sindaco Alessandro Falvo, che hanno creduto in questo modello di cura. Perché CasaPaese non è una struttura: è un paese che cura.”
Oggi molti fatti di cronaca, anche omicidi e gesti di violenza, vengono ricondotti a disturbi psichiatrici. Quanto è reale e quanto invece frutto di un sistema che non sa più prendersi cura delle fragilità mentali?
“È una domanda molto delicata, alla quale rispondo con franchezza. Viviamo in un tempo in cui la fragilità, la diversità e la libertà di essere fanno ancora paura. Su questo, l’umanità ha fallito. Ogni volta che accade un gesto estremo, la comunità, la politica, le istituzioni cercano una causa rapida, un’etichetta che ci metta al sicuro. È più facile, e anche più economico, pensare che la violenza nasca da una mente malata, piuttosto che riconoscere che spesso nasce da un mondo che ha smesso di prendersi cura.”
Probabilmente incide molto anche la solitudine in cui si vive in questa nostra società malata
“La maggior parte di queste persone non è pericolosa: è sola. Sola nei pensieri, nelle emozioni, nella mancanza di un luogo in cui essere accolta. E la solitudine, quando dura troppo, diventa essa stessa una malattia. Il vero problema oggi non è la malattia mentale, ma l’assenza di umanità nelle principali agenzie educative, dove tutto va di fretta e dove il risultato è l’unico obiettivo. Abbiamo trasformato la sofferenza in un dato clinico, in un codice. Abbiamo perso la capacità di creare legami significativi. E così le persone si spezzano. La sofferenza può diventare violenza, ma non perché nasce dal male: nasce dall’abbandono, dall’assenza.”
Dopo la chiusura dei manicomi con la legge Basaglia, lo Stato sembra non aver più costruito una vera rete di salute mentale. È d’accordo?
“Sì. Quel percorso di civiltà si è interrotto proprio nel punto in cui avrebbe dovuto cominciare davvero: nella costruzione di comunità che curano. Basaglia non voleva solo chiudere i manicomi: voleva aprire le città, i quartieri, i paesi alla diversità umana. Ma dopo la legge, lo Stato si è fermato al gesto simbolico, dimenticando di aprire porte nuove.”
Abbiamo liberato le persone, ma non dato loro spazi di appartenenza, reti di relazione, luoghi di vita
“La libertà, se lasciata sola, diventa un’altra forma di prigionia. Le famiglie sono diventate i nuovi manicomi affettivi, costrette a contenere ciò che la società non vuole più vedere. Basaglia ci ha insegnato che “la libertà è terapeutica”. Ma quella libertà, per essere tale, deve essere accompagnata da relazioni e sguardi capaci di accogliere la fragilità. CasaPaese nasce da quella lezione incompiuta: è la risposta concreta a una promessa mancata. Dimostra che si può curare senza rinchiudere, che si può vivere con la demenza dentro una comunità e non ai suoi margini.”
La conclusione di questa bella intervista della Solano dice tutto quello che è necessario capire e sapere: “Lo Stato ha perso la capacità di pensare la salute mentale come responsabilità collettiva, non solo sanitaria. Una società sana non è quella che elimina la follia, ma quella che sa dialogare con essa.”
di Riccardo Montanaro







