Un incidente sul lavoro, la paralisi, la speranza. La notizia del giovane paziente che, grazie a una stimolazione elettronica sperimentale, è tornato a camminare dopo un grave trauma midollare ha commosso l’Italia. Ma per Antonio Guidi, neuropsichiatra, già ministro per la Famiglia e oggi senatore della Repubblica, non basta commuoversi. Occorre comprendere. E soprattutto, occorre discernere.
«È un caso di disabilità accidentale, indotta da un evento traumatico e non congenita – precisa il professore ai microfoni de La Capitale – e questo rende ogni generalizzazione inappropriata. Non si può trattare l’intero universo della disabilità con lo stesso metro».
Il caso del giovane operaio pisano riguarda una disabilità acquisita, generata da un trauma improvviso che ha interrotto una condizione precedente di piena autonomia fisica. Guidi, partendo da questo episodio, apre un discorso più ampio sulla disabilità strutturale, quella non indotta, ma identitaria, che accompagna milioni di persone fin dalla nascita o lungo il corso della loro esistenza.
L’oculato entusiasmo
Guidi non nega il valore scientifico del risultato, ma invita a tenere i piedi per terra. «Sono rimasto positivamente colpito, ma non entusiasta. C’è bisogno di una verifica in tempi logici, con un approccio multiprofessionale e multiassiale. Non è sfiducia – chiarisce – è paura della delusione». La voce del professore è profondamente lucida. Non una condanna al progresso, ma un invito alla sua umanizzazione: «Spesso lo scienziato, per ottenere plauso, propone la sua ipotesi come se fosse risolutiva. Ma il miracolo non esiste. Esiste un approccio dolce, rispettoso e logicamente lento».
Disabilità e medicina, il monito di Guidi sulla «smodata normalizzazione»
Il rischio, per Guidi, è che narrazioni trionfanti come questa rinforzino inconsapevolmente visioni abiliste. «Quando si raccontano storie come questa talvolta senza adeguato contesto e senza prudenza – sottolinea il senatore, peraltro vicepresidente della commissione straordinaria Diritti umani – si rafforza l’idea che la disabilità sia una parentesi da chiudere, una condizione da cui si deve uscire per essere di nuovo pienamente accettabili».
Il vero pericolo, aggiunge, è culturale: «La smodata ricerca di normalizzazione nasconde talvolta una visione razzista, per la quale la disabilità non deve esistere. Ma curare non significa cancellare. La cura serve per alleviare dolore fisico e psicologico, non per negare l’identità di una persona». Narrare soltanto le rinascite, sostiene Guidi, è un modo per ignorare chi vive la disabilità come una condizione stabile e non transitoria, e per cui la dignità non dipende da una miracolosa guarigione.
Un orizzonte più ampio: «Non siamo solo muscoli e neuroni»
Il professore insiste sulla necessità di considerare la persona nella sua totalità. «Non si può ridurre a un parametro neurofisiologico una tematica che riguarda tutta la personalità. Accanto al muscolo e al neurone impazzito, c’è una vita, una storia, una rete affettiva. Età, depressione, contesto familiare: tutto conta». Per questo, invita a evitare facili entusiasmi: «Non ci sono tempi dettati da cronometri svizzeri. Ognuno ha il proprio ritmo. E ogni terapia dev’essere calibrata sul singolo».
Interrogato sulla propria esperienza personale, Guidi offre uno sguardo disarmante. «Alla soglia degli ottant’anni, riconosco di aver avuto nella vita strumenti per proporre io stesso terapie. Ma ho scelto di vivere in modo un po’ incosciente, piuttosto che medicalizzare ogni sintomo. Perdere la deambulazione è stato un percorso lento, ma mi sono adattato». La sua riflessione è netta: «Non tutto deve essere curato a ogni costo. Alcuni trattamenti possono risolvere una patologia, ma compromettere la persona. Propongo la cosa più faticosa: raggiungere l’equilibrio tra costi e benefici».
Disabilità e medicina, Guidi: «Il progresso? Solo se umano»
Guardando avanti, Guidi lancia un monito che è anche un messaggio etico: «Anche il progresso più brillante, se non rispetta la persona, fallisce. La scienza non è un oracolo. È uno strumento che deve restare al servizio dell’uomo».