La dignità non muore mai: la storia della morte di un dipendente Ferrero

Ferrero

Circola sui social la notizia di un uomo morto di tumore allo stomaco. Ha lasciato due figli, appena diventati adulti: uno ha 17 anni, l’altro 19. La vita si spezza, il dolore travolge. Ma qualcosa, in mezzo alla tragedia, resiste: la dignità. Quella dell’uomo che ha lavorato ogni giorno per i suoi figli. E quella di un’azienda che non si volta dall’altra parte.

L’uomo lavorava alla Ferrero, una delle eccellenze italiane conosciute nel mondo. Ma più che un colosso dolciario, qui parliamo di qualcosa di più profondo: un’idea di impresa come comunità. Perché la Ferrero, nel silenzio, senza clamore, ha deciso di garantire ai figli del dipendente scomparso tre anni di stipendio pieno. E se i due ragazzi decideranno di continuare gli studi, l’azienda si prenderà cura di loro economicamente fino ai 26 anni. Non un gesto di beneficenza. Ma di giustizia. Di responsabilità. Di umanità.

E viene naturale ricordare Michele Ferrero, fondatore e anima di questa impresa che ha saputo coniugare successo e umanità, profitto e cura. Era uno degli uomini più ricchi d’Italia, ma più che ricco fuori, era ricco dentro. Amava ripetere: “Lavoro per i miei dipendenti, non per i miei eredi.” Una frase che dice tutto. Che ribalta la logica dominante del capitalismo di rapina, quello che calcola i centesimi ma ignora le persone.

Michele Ferrero conosceva per nome i suoi operai, chiedeva di loro, della famiglia, della salute. Non era un padrone, era un custode. Sapeva che un’azienda è fatta prima di tutto di volti, di storie, di esistenze. E sapeva che il vero successo non si misura nei bilanci, ma nella fiducia reciproca.

Oggi che molte aziende chiudono improvvisamente, licenziano via e-mail, delocalizzano per risparmiare pochi punti percentuali, la Ferrero resiste. E non solo: testimonia. Dice che un altro modo di fare impresa è possibile. Che il lavoro può ancora essere un patto, non un ricatto. Che l’economia può avere un’anima, se guidata da uomini giusti.

In un’Italia che troppo spesso celebra imprenditori cinici e spregiudicati, è tempo di raccontare chi ha costruito ricchezza vera, non solo finanziaria ma umana. Michele Ferrero non era un santo, ma un imprenditore illuminato, uno dei pochi a cui la parola capitalismo etico calza senza retorica. Un uomo che ha portato nel mondo la Nutella, ma che ha portato dentro la sua azienda un principio semplice: prima le persone.

Il gesto di oggi, nei confronti dei due ragazzi rimasti orfani, non è un’eccezione. È parte di un’eredità morale che continua. È la prova che si può essere grandi davvero solo se si resta umani. Che non esistono aziende “di successo” se non generano rispetto, cura, futuro.

Michele Ferrero è stato, e resta, un esempio. Uno di quelli che avremmo bisogno di moltiplicare, studiare, imitare. Perché l’Italia non ha bisogno solo di innovazione tecnologica. Ha bisogno di cuore, visione, responsabilità sociale. Di una nuova stagione dell’impresa come bene comune.

E allora, in questo tempo in cui le cronache raccontano di egoismi e disuguaglianze, teniamoci stretta questa storia. Parla di morte, sì. Ma anche di speranza viva. Di dignità che resiste. Di un’idea di impresa che fa bene al mondo.

Come diceva Michele Ferrero: “Il capitale più importante che possediamo è la fiducia della gente.”

E quella, oggi, vive ancora.

A dieci anni dalla sua scomparsa, l’eredità di Michele Ferrero continua a vivere non solo negli stabilimenti e nei prodotti dell’azienda, ma soprattutto nel tessuto sociale di Alba e del territorio langarolo, che ha protetto, valorizzato, fatto crescere. Un territorio che gli è profondamente grato. La sua figura è ancora oggi un riferimento per una comunità che si sente parte di una grande famiglia. Una famiglia fondata su valori concreti: lavoro, rispetto, solidarietà, umanità.

Ferrero lasciò anche un vero e proprio manuale  del capo. Lo scrisse oltre 40 anni fa, quando la parola “leadership” non era ancora di moda, ma le sue regole restano attualissime. Eccone alcune:

  1. Nei vostri contatti, mettete i collaboratori a loro agio: ascoltateli davvero, dedicate loro tempo, non fateli sentire piccoli.
  2. Prendete decisioni chiare e coinvolgeteli: crederanno nelle scelte a cui hanno partecipato.
  3. Comunicate i cambiamenti prima di attuarli.
  4. Riconoscete pubblicamente ciò che è positivo. Le critiche, quando necessarie, siano costruttive.
  5. Agite con tempestività: “troppo tardi” è pericoloso quanto “troppo presto”.
  6. Intervenite sulle cause, non solo sui comportamenti.
  7. Considerate i problemi nel loro insieme e lasciate margini di autonomia.
  8. Siate sempre umani.
  9. Non chiedete l’impossibile.
  10. Ammettete gli errori, vi aiuterà a non ripeterli.
  11. Preoccupatevi di come i collaboratori vi vedono.
  12. Non cercate di essere tutto per tutti: finireste per non essere niente.
  13. Diffidate degli adulatori: a lungo andare sono più dannosi dei critici sinceri.
  14. Date sempre quanto dovete, ma ricordate: conta come e quando lo fate.
  15. Non prendete decisioni sotto l’influsso di rabbia o ansia: aspettate lucidità.
  16. Un buon capo fa sentire un gigante anche un uomo comune. Uno cattivo può ridurre un gigante a un nano.
  17. Se non credete in questi principi, rinunciate ad essere capi.

Chi non se la sente di rispettare queste regole, diceva Ferrero, farebbe meglio a rinunciare ad essere un capo. Parole che oggi suonano come una lezione. E domani, forse, come una profezia.

di Ernesto Mastroianni