Il primo viaggio internazionale di Papa Leone XIV non è un viaggio ordinario. È un itinerario che attraversa una regione in cui le fratture geopolitiche, religiose e culturali si sovrappongono fino a formare una mappa instabile. Il Pontefice, Robert Francis Prevost, arriva stamattina ad Ankara per incontrare il presidente Recep Tayyip Erdogan, aprendo una missione di sei giorni tra Turchia e Libano. Un percorso pensato per rimettere al centro il dialogo in un momento in cui la guerra in Ucraina e il conflitto tra Israele e Hamas hanno ridisegnato il panorama delle relazioni tra le religioni.
Il viaggio parte dalla Turchia, un Paese che nella storia recente ha oscillato tra ruolo di mediatore e tensione interna. Domani Leone XIV presiederà a Iznik, l’antica Nicea, l’incontro ecumenico per i 1700 anni del primo Concilio. È un appuntamento che assume un significato diverso rispetto alle commemorazioni tradizionali. L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti lacerato i rapporti tra il patriarcato ecumenico di Costantinopoli e il patriarcato di Mosca, mostrando all’esterno un’ortodossia profondamente divisa. L’appuntamento di Nicea diventa quindi un tentativo di ricomporre, almeno simbolicamente, uno strappo che negli ultimi due anni si è trasformato in un conflitto diplomatico e teologico.
Dopo Nicea, il Papa si sposterà a Istanbul, città che incarna come poche altre la stratificazione religiosa dell’area. Qui incontrerà il rabbino capo della Turchia e farà visita alla “moschea blu”, uno dei luoghi più riconosciuti dell’islam mondiale. Seguirà l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli, un gesto che richiama la lunga tradizione di rapporti tra Roma e il mondo ortodosso. Per la piccola comunità cattolica turca, il Papa celebrerà messa, mentre domenica si recherà alla cattedrale armena di Istanbul, rinnovando l’attenzione verso un cristianesimo che in Turchia ha radici antiche ma oggi vive in condizioni di marginalità.
La seconda parte del viaggio si sviluppa in Libano, un Paese il cui equilibrio interno è tanto delicato quanto cruciale per l’intera regione. Leone XIV atterra a Beirut il 30 novembre. Qui i cristiani rappresentano circa un terzo della popolazione e sono parte integrante del sistema istituzionale. La visita avviene dopo anni di instabilità politica, culminati in due anni di vuoto presidenziale poi risolto con l’elezione di Michel Aoun lo scorso gennaio. Papa Francesco aveva programmato un viaggio breve, poi rinviato; Leone XIV eredita quel progetto e lo amplia, costruendo un percorso che unisce ascolto, diplomazia e presenza simbolica.
Il momento più forte, sul piano emotivo, arriverà il 2 dicembre, quando il Papa si fermerà al porto devastato dall’esplosione del 4 agosto 2020, una ferita ancora aperta nella memoria collettiva libanese. La messa celebrata sul lungomare vuole essere un richiamo alla ricerca di giustizia, in un Paese dove la ricostruzione materiale è lenta e la ricostruzione istituzionale ancora più difficile.
Un tema inevitabile riguarda la sicurezza. Dopo il raid israeliano del 23 novembre, che ha ucciso un dirigente di Hezbollah, L’Orient Le Jour ha lanciato un sondaggio chiedendo ai lettori se ritenessero possibile un annullamento della visita. Dal Vaticano sono arrivate rassicurazioni: «Si sono prese tutte le precauzioni ritenute necessarie», ha affermato il portavoce Matteo Bruni. Ma la percezione del rischio resta alta. È circolato un video, molto commentato online, in cui la regina Rania di Giordania chiede al Papa se il viaggio in Libano sia davvero sicuro. Il Pontefice risponde sottovoce: «Well, we’re going». Una frase semplice, ma che racconta la volontà di mantenere la rotta anche quando il contesto è complesso.
Le reazioni nella regione sono significative. In Libano alcuni gruppi hanno invitato il Papa a visitare il sud del Paese, la zona più colpita dai raid israeliani degli ultimi mesi. In Turchia, invece, alcuni piccoli movimenti nazionalisti accusano il Vaticano di portare avanti un “complotto ecumenico americano”, una retorica che ritorna ciclicamente e che riflette le tensioni interne a un Paese in cui religione, identità nazionale e politica estera si intrecciano in modo spesso imprevedibile.
Il viaggio di Leone XIV è anche un’occasione per osservare lo stile del nuovo Pontefice. Meno espansivo di Francesco, ma dotato di una forte esperienza internazionale maturata come missionario in Perù e priore degli agostiniani, Prevost è il primo Papa moderno ad aver viaggiato in molti continenti già prima dell’elezione. Le richieste di accredito per questa missione sono state tra le più alte degli ultimi anni: circa ottanta giornalisti accompagneranno il viaggio, inclusi tutti i principali network televisivi statunitensi. I discorsi e le omelie saranno pronunciati in inglese e francese, una scelta che riflette sia la formazione del pontefice sia la volontà di parlare a un pubblico globale.
Al centro rimane il nodo teologico e storico che dà forma all’intero itinerario: Nicea. Come ricorda Luigi Sandri nella sua storia dei Concili, quello del 325 fu convocato non da un Papa, ma dall’imperatore Costantino, consapevole del valore politico dell’unità della Chiesa nelle dinamiche dell’impero. La disputa ariana, che poteva rimanere confinata negli ambienti teologici, divenne un dibattito popolare e infiammato.
Il Concilio definì il Credo che ancora oggi unisce i cristiani di tutti i riti e continenti. Antonio Ballarò, nel suo recente volume “La forma del Credo”, sottolinea come quel testo abbia inaugurato una tradizione che ha attraversato secoli di conflitti senza perdere la sua forza identitaria.
Che Papa Leone XIV apra il suo pontificato tornando proprio a Nicea non è una scelta casuale.
È un tentativo di ripartire dalle radici della cristianità per comprendere come parlare al mondo contemporaneo. E in un tempo segnato dalla guerra, il dialogo interreligioso non è una teoria, ma un’urgenza politica, spirituale e diplomatica. La missione in Turchia e Libano diventa così il primo banco di prova di un pontificato che dovrà muoversi tra divisioni teologiche, tensioni mondiali e la fragile possibilità di costruire ancora, nonostante tutto, un linguaggio comune tra le fedi.






