Nel 1979, una delle società più giovani e dinamiche del Medio Oriente venne travolta da una rivoluzione. Non fu una rivoluzione industriale né culturale, ma religiosa. L’Iran dello scià Mohammad Reza Pahlavi, che fino a quel momento aveva cercato di occidentalizzarsi con riforme economiche, educative e uno stile di vita sempre più vicino a quello europeo, fu inghiottito da un’ondata fondamentalista guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. La monarchia venne rovesciata. Il velo tornò obbligatorio. La musica venne censurata. Le donne divennero cittadine di seconda classe. Era nata la Repubblica Islamica.
L’Iran degli anni Settanta era un Paese in fermento, giovane, colto, con università frequentate da donne e uomini, teatri, cinema, artisti. La modernizzazione dello scià, per quanto autoritaria e appoggiata dagli Stati Uniti, aveva creato una classe media urbana che guardava all’Occidente. Ma quella modernizzazione fu anche superficiale, incapace di colmare le diseguaglianze tra città e campagne, tra ricchi e poveri, tra fedeli e laici. E così Khomeini, esiliato in Francia ma ancora ascoltato in patria, seppe catalizzare un malcontento diffuso, promettendo giustizia e uguaglianza. Portò invece terrore, censura e repressione.
La presa degli ayatollah
Dopo il ritorno di Ruhollah Khomeini in Iran, nel febbraio 1979, gli islamisti eliminarono progressivamente ogni opposizione. I comunisti furono giustiziati o costretti all’esilio, gli intellettuali epurati, le donne ricacciate in casa. I pasdaran, le Guardie della Rivoluzione, divennero il braccio armato del nuovo regime, mentre i tribunali religiosi sostituirono le corti civili. In pochi mesi, un Paese laico si trasformò in una teocrazia sciita. La Costituzione del 1979 stabilì che il potere ultimo spettava al rahbar, la Guida Suprema: allora Khomeini, oggi Ali Khamenei.
Gli ayatollah non si limitarono a controllare l’Iran. Attraverso fondi, armi e addestramento, iniziarono a esportare la rivoluzione in tutto il Medio Oriente. Nasce così Hezbollah in Libano, fiancheggiato dai servizi segreti iraniani. Hamas, in Palestina, ricevette appoggio. In Iraq, Siria, Yemen e perfino in Afghanistan, milizie sciite armate dall’Iran contribuirono a instabilità e guerre civili. Dietro a molti attentati, dietro a numerose crisi, dietro a reti clandestine di finanziamento del terrorismo, si ritrovano le impronte delle istituzioni iraniane. Una politica estera fondata sul caos per consolidare il potere interno.
Eppure, sotto il chador imposto, qualcosa non ha mai cessato di ribollire. L’Iran ha una popolazione giovanissima: più del 60% ha meno di 30 anni. È una generazione nata dopo la rivoluzione, cresciuta con internet, TikTok, Instagram, musica underground e cinema d’autore. È soprattutto una generazione femminile che rifiuta di essere sottomessa. Negli ultimi anni, centinaia di ragazze sono state arrestate, torturate, uccise per aver osato togliere il velo o protestare contro le leggi islamiche. Il caso di Mahsa Amini, morta dopo l’arresto da parte della polizia morale nel 2022, ha acceso la miccia di una delle rivolte più dure degli ultimi decenni. Il grido “Donna, Vita, Libertà” ha attraversato il Paese da Teheran a Shiraz, da Tabriz a Mashhad.

Un regime in bilico?
Il regime iraniano oggi appare forte all’esterno, ma sempre più debole dentro. L’economia è in crisi per le sanzioni internazionali, la corruzione è endemica, la fuga di cervelli continua. Le manifestazioni non si sono mai davvero spente. La morte di Khamenei, ormai anziano e malato, potrebbe aprire una lotta interna tra falchi e colombe, tra i pasdaran e la vecchia burocrazia religiosa. La guida suprema non ha un erede carismatico. Le élite clericali sono divise. Il malcontento sociale cresce, e le donne sono diventate il simbolo della resistenza.
L’attacco israeliano all’Iran — che ha colpito infrastrutture militari legate al programma nucleare — riporta l’attenzione internazionale su Teheran. Ma l’Iran non è solo un problema geopolitico. È anche un Paese in cui milioni di giovani chiedono futuro, libertà, diritti. La caduta del regime non è impossibile, ma sarà probabilmente lenta, graduale, non violenta. Verrà da dentro, dalle donne, dai ragazzi, dai poeti, dai programmatori, dai registi, dagli studenti.
L’Occidente, troppo spesso impegnato a negoziare con gli ayatollah in nome del “realismo”, dovrà decidere da che parte stare. Non più solo tra le bombe e il petrolio, ma tra la libertà e la paura. “Donna, Vita, Libertà” potrebbe essere il motto di una futura rivoluzione. Non più religiosa. Non più violenta. Ma finalmente umana.