“Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole”.
Questa frase di Victor Hugo, scolpita nella memoria dei popoli che hanno attraversato la disperazione, oggi risuona come un’eco lontana nella terra martoriata di Gaza. Dove il sole tarda a sorgere, dove la notte sembra essersi impadronita dei giorni, dei corpi, delle speranze. Lì, nel cuore della Striscia, tra le macerie di un popolo assediato, muoiono i bambini. Non metaforicamente, ma davvero. Di fame. Di sete. Di bombe. Di abbandono.
Si parla di decine di migliaia di vittime innocenti. Si contano milioni di persone a rischio carestia. Si alzano appelli delle Nazioni Unite, si invocano pause umanitarie, si rilanciano vertici diplomatici. Ma il mondo, nella sua architettura globale, appare stanco, smarrito, incapace. A volte, peggio: indifferente. E ciò che è inaccettabile diventa progressivamente tollerato. Un genocidio in slow motion, a cui ci si abitua come a una notizia di sfondo.
Com’è possibile tutto questo nel terzo millennio?
Com’è possibile che dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo Sarajevo e Kigali, si sia ancora qui a elencare civili sterminati, fame programmata, vite ridotte a statistiche? Forse è vero ciò che disse una volta lo storico Tony Judt: che il Novecento, secolo breve e tragico, non ci ha lasciato un’eredità, ma un buco nero della memoria. Siamo diventati più esperti nella rimozione che nella consapevolezza. Più pronti a distogliere lo sguardo che a guardare in faccia l’orrore.
E così Gaza – come il Sudan, il Congo, l’Ucraina, la Siria, il Myanmar – entra nel vocabolario geopolitico quotidiano, ma non nel cuore delle coscienze. Viviamo una terza guerra mondiale a pezzi, come disse con forza Papa Francesco. E oggi, con voce nuova e parole tremende, Papa Leone XIV lo ribadisce: “È il momento di costruire ponti dove ora ci sono solo crateri, ferite, rovine”. Ponti tra le religioni, tra i popoli, tra le generazioni. Ponti di senso, laddove il senso pare essersi perduto. Ponti di giustizia, laddove l’ingiustizia è diventata legge.
Papa Leone non parla da stratega, ma da uomo. Non propone alleanze, ma riconciliazione. Non cerca vittorie, ma umanità. E il suo appello non può restare confinato alle omelie o alle citazioni. Deve farsi carne nella politica, nelle istituzioni, nei media, nelle piazze. Perché ogni bambino che muore oggi a Gaza non è un fatto “locale”, è una ferita inferta al corpo vivo del mondo. È una vergogna che ci riguarda tutti.
Oggi scriviamo, domani manifestiamo, dopodomani forse dimentichiamo. Ma il dolore resta, scolpito nei volti dei sopravvissuti, nelle urla senza eco di chi chiede solo pane e dignità. La notte più buia finirà solo se lo vorremo davvero. Se torneremo a indignarci. Se torneremo a sperare. Se torneremo a scegliere la pace, non come alternativa alla guerra, ma come fondamento della nostra civiltà.
Che sorga il sole. Ma prima, abbassiamo le armi. Prima, ascoltiamo i pianti. Prima, costruiamo quei ponti.