La mattina del 25 novembre ha sempre la stessa luce: una luce che sembra venire da lontano, come se attraversasse secoli e case e scale e pianerottoli, fermandosi davanti alle porte chiuse dove tante donne hanno taciuto per anni. È una luce obliqua, che non abbaglia ma scava. E nel suo taglio sottile ci obbliga a vedere ciò che preferiremmo dimenticare: che la violenza maschile sulle donne non è una notizia, non è un incidente, non è una devianza. È una storia. Una storia antica, stratificata, più lunga della nostra modernità, più dura dei nostri proclami, più resistente delle nostre celebrazioni. Una storia che ci guarda da sotto, come un fiume carsico che non ha mai smesso di scorrere.
Ogni anno, il 25 novembre torna come un rito civile. Le piazze si riempiono, le scarpe rosse si allineano sulle scale, le postazioni dei Centri Antiviolenza ripetono numeri e istruzioni. Ma c’è una domanda che dovremmo avere il coraggio di fare: quanto di tutto questo diventa cambiamento? Quanto diventa realtà? Quanto diventa protezione, salvezza, prevenzione? E quanto, invece, rimane appeso come un velo tra noi e la verità che non vogliamo guardare?
Perché la verità è questa: la violenza contro le donne in Italia ha radici profonde. Non nasce con i femminicidi degli ultimi vent’anni, né con la cronaca nera delle nostre città. Nasce quando le donne non avevano un nome autonomo, quando non potevano testimoniare in tribunale, quando non potevano decidere del proprio corpo, del proprio futuro, nemmeno dei propri figli. Nasce quando il matrimonio riparatore cancellava lo stupro come una nota di contabilità. Nasce quando il delitto d’onore veniva punito con pochi mesi di pena, perché “la passione” era considerata una giustificazione. Nasce quando l’Italia repubblicana – quella del suffragio universale, dei diritti, dei valori costituzionali – continuava a trattare la violenza domestica come un fatto privato, una vergogna da nascondere.
Ricordiamolo: il delitto d’onore è stato abolito nel 1981. Lo stupro è diventato reato contro la persona nel 1996. Il primo rifugio antiviolenza è nato grazie al movimento femminista, non allo Stato. E la cultura del possesso – quell’idea che una donna sia qualcosa che appartiene a qualcuno – non è mai scomparsa del tutto. Si è trasformata. Si è spostata. Si è modernizzata. Ma non è morta.
E così arriviamo a oggi. A un Paese in cui una donna viene uccisa ogni tre giorni. A un Paese in cui le denunce aumentano, ma anche i delitti aumentano. A un Paese in cui le misure di protezione arrivano spesso tardi, o non arrivano affatto. A un Paese in cui tribunali diversi danno risposte diverse, in cui una donna può sentirsi protetta in una città e completamente sola in un’altra. A un Paese in cui ancora si sente dire: “Era una lite degenerata”, “Lui era un bravo ragazzo”, “Non lo aveva mai fatto”, “Lei avrebbe dovuto capire”. Come se il peso del pericolo fosse sempre sulle spalle delle donne. Come se la responsabilità fosse loro. Come se la loro libertà fosse una concessione revocabile.
La verità è un’altra: la violenza non è un problema delle donne. È un problema degli uomini. Degli uomini che esercitano violenza. Degli uomini che la giustificano. Degli uomini che girano la testa dall’altra parte. Degli uomini che pensano che l’amore sia controllo, che la gelosia sia una prova, che il rifiuto sia un affronto. E di un sistema sociale – educativo, giudiziario, culturale – che non li contraddice abbastanza presto, abbastanza bene, abbastanza forte.
Non possiamo più permetterci di raccontare la violenza come un raptus. Non è un impeto improvviso. Non è una follia del momento. È il punto finale di una lunga escalazione fatta di parole, umiliazioni, isolamento, controllo, minacce, silenzi. Ogni femminicidio è l’ultimo fotogramma di un film iniziato molto prima. E se vogliamo fermare l’ultimo fotogramma, dobbiamo vedere anche gli altri.
La storia italiana lo dimostra: ogni volta che abbiamo cambiato davvero le cose, lo abbiamo fatto guardando la realtà senza filtri. Lo hanno fatto le donne che negli anni ’60 e ’70 riempivano le piazze con slogan scritti a mano e schiene dritte come assi di legno. Lo hanno fatto le magistrate e le avvocate che hanno combattuto dentro le aule dei tribunali quando nessuno le ascoltava. Lo hanno fatto le maestre che nelle scuole insegnavano il rispetto senza nemmeno chiamarlo così. Lo hanno fatto le giornaliste che raccontavano storie che nessuno voleva leggere. Lo hanno fatto le sopravvissute che hanno trovato il coraggio di testimoniare. Ogni diritto che oggi abbiamo – ogni legge, ogni protezione, ogni centro antiviolenza – esiste perché qualcuno, prima, ha avuto paura. E nonostante questo, ha parlato.
Ma oggi la domanda è un’altra: e noi? Noi cosa stiamo facendo? Noi che raccontiamo, leggiamo, votiamo, giudichiamo, condividiamo? Noi che ci indigniamo solo quando un nome diventa troppo famoso per essere ignorato? Noi che pretendiamo che una donna denunci sapendo che denunciando rischia la vita? Noi che siamo sempre pronti a chiedere a lei cosa avrebbe dovuto fare, e quasi mai ci chiediamo cosa avremmo dovuto fare noi?
Il 25 novembre non è solo un giorno simbolico. È uno specchio. E quello che ci restituisce non è un bel volto. Ci mostra un Paese attraversato da una frattura profonda: tra ciò che dice e ciò che fa. Tra ciò che promette e ciò che mantiene. Tra ciò che mostra e ciò che nasconde. Un Paese in cui la libertà femminile è ancora fragile, condizionata, negoziata. Un Paese in cui il corpo delle donne è ancora un terreno di scontro, simbolico e reale.
E allora oggi, mentre le città si riempiono di cortei e di nomi letti ad alta voce, vorrei che ci soffermassimo non sulle morte, ma sulle vive. Su quelle che oggi tornano a casa e si chiedono se domani sarà diverso. Su quelle che stanno ancora cercando il momento giusto per denunciare. Su quelle che non denunceranno mai perché non hanno nessuno che le accompagni. Su quelle che stanno crescendo adesso, nelle scuole, e a cui dobbiamo insegnare non la paura, ma la libertà. Su quelle che un giorno cammineranno per strada senza chiedersi chi c’è dietro, chi c’è accanto, chi le aspetta.
Io, oggi, camminando tra quelle scarpe rosse, mi domando quanto tempo ancora ci vorrà perché il 25 novembre non serva più. Quanto tempo ci vorrà perché una donna non debba più dirsi “speriamo che non succeda a me”. Quanto tempo ci vorrà perché un uomo capisca che l’amore non è possesso, non è dominio, non è potere, non è diritto. Non ho la risposta. Ma so questo: la violenza muore solo quando la guardiamo. Quando la nominiamo. Quando smette di essere un affare privato e diventa una responsabilità pubblica. Quando gli uomini iniziano a parlarne agli uomini. Quando lo Stato smette di essere timido. Quando la scuola diventa il primo luogo di prevenzione, non l’ultimo. Quando la cultura cambia.
Fino ad allora, cammineremo. Leggeremo nomi. Porteremo fiori. Diremo parole. E ogni parola sarà un frammento di storia che avanza, lento ma ostinato, verso un giorno in cui il 25 novembre potrà essere un ricordo. Non una resa dei conti. Perché l’obiettivo non è ricordare le vittime, ma evitare le prossime. E la ferita, fino ad allora, dovrà restare aperta. Sempre.
di Francesco Vilotta







