Fu giovane, fu ministro, fu vicepremier. Per un certo periodo — tra una promessa a caso e una conferenza stampa in felpa — fu addirittura il volto rassicurante dell’Italia che cambiava. E sì, c’era da fidarsi: uno come lui la povertà l’aveva sconfitta, parole sue, da ministro del Lavoro, con l’entusiasmo di chi crede davvero che un decreto basti a risolvere secoli di disuguaglianze. Era il tempo del Reddito di cittadinanza, e Luigi Di Maio sembrava aver preso in affitto la storia, convinto di riscriverla con un bonus e un post su Facebook.
Nato politicamente nel M5S quando ancora si credeva che con un clic si potesse cambiare il mondo, Luigi è il prototipo del grillino evoluto: all’inizio arrabbiato, poi entusiasta, infine governativo. Cresciuto tra Pomigliano e i meetup, è passato dalla gestione dei banchetti alla gestione della Farnesina senza mai disturbare troppo il merito, né tantomeno la grammatica.
Vicepresidente della Camera a 26 anni senza sapere cosa fosse un “iter legislativo”, ministro dello Sviluppo Economico senza aver mai gestito nemmeno un negozio di caramelle, ministro degli Esteri con lo stesso piglio con cui si prenota un viaggio su Skyscanner — Luigi ha fatto della scalata istituzionale una disciplina zen: più si chiedeva esperienza, più lui offriva presenza.
Di Maio non era il più carismatico, né il più colto. Ma era il più adattabile. Quando serviva, era grillino ortodosso: No TAP, No TAV, No tutto. Quando serviva ancora, era europeista, moderato, perfino draghiano. Più che un politico, sembrava un camaleonte con la cartella stampa. Con una certa umiltà, certo, ma anche con quell’ambizione lucida che gli ha permesso di sopravvivere a Grillo, Casaleggio, Conte e persino a se stesso.
Ha tradito quasi tutti, ma sempre con una faccia così candida da sembrare quasi che fosse colpa tua. La scissione dal M5S, con la creazione di “Insieme per il Futuro”, è stata così rapida e sterile che nemmeno i documentaristi di Netflix riuscirebbero a renderla interessante.
Dopo aver perso le elezioni del 2022, rimanendo fuori dal Parlamento, avrebbe potuto fare come tanti: aprire un podcast o andare a fare opinionismo da Giletti. Invece, ha fatto molto meglio: ha ricevuto un incarico da “inviato speciale Ue per il Golfo Persico”. In sintesi: da portavoce dei disoccupati italiani a mediatore con l’élite petrolifera del Medio Oriente. Una transizione naturale, come quella tra Reddito di cittadinanza e yacht di lusso.
Ufficialmente lavora per migliorare i rapporti energetici dell’Unione. In pratica: ogni tanto appare in foto sorridente con un emiro, ogni tanto scompare in qualche salotto diplomatico climatizzato. Nessuno sa esattamente cosa faccia, ma tutti intuiscono che lo faccia bene. O almeno, che lo faccia pagato.
Forse Di Maio non ha davvero sconfitto la povertà degli italiani, ma la propria sì, e con risultati brillanti. Ha navigato la crisi del M5S come un diplomatico in incognito, ha lasciato il Parlamento prima che gli altri si accorgessero del disastro, e si è riciclato con tempismo chirurgico. A trentasei anni ha già avuto più incarichi di un veterano della Prima Repubblica. Non ha un’ideologia, ma ha un’agenda. E soprattutto, ha capito che l’antipolitica è stata solo l’anticamera della politica vera: quella dei corridoi, dei rapporti, delle porte girevoli.
Il Movimento 5 Stelle, nel frattempo, è diventato una lobby nostalgica. Gli eroi della prima ora sono svaniti nei talk show o nelle pensioni parlamentari. Conte ha dato il benservito allo stracotto Grillo, lavora solo per tornare a Palazzo Chigi, ma sembra il reggente di una monarchia abolita. Di Battista viaggia, Fico sparisce, Taverna twitta con rassegnazione. Il sogno rivoluzionario è diventato una rubrica di retorica stanca.
Sì, ha vinto. Ha attraversato la politica italiana come un turista determinato: con lo zaino leggero, pochi scrupoli e ottima capacità di adattamento. Non ha cambiato il Paese, ma ha cambiato sé stesso, e in fondo, è tutto ciò che conta davvero.
La povertà? Non c’è più.
Almeno, non nel suo conto in banca.
Tacco di Ghino