Mentre Israele e Iran si colpiscono a distanza tra droni, omicidi mirati e attacchi informatici, a Teheran si apre una partita più grande della guerra: chi guiderebbe il regime in caso di morte o deposizione di Khamenei? E, soprattutto, è immaginabile un ritorno di qualcosa che assomigli vagamente a uno Scià, o si passerà semplicemente da un turbante all’altro?
L’eredità sanguinaria del regime islamico
Nel 1979 l’Ayatollah Khomeini non riportò in vita un glorioso califfato perduto: rovesciò brutalmente la monarchia dello Scià, instaurò la Repubblica islamica e da allora l’Iran non si è più liberato. Nel 1988, il fondatore della teocrazia ordinò – senza mezzi termini – l’esecuzione di migliaia di oppositori politici. Giovani, studenti, membri di gruppi di sinistra. Nessun processo, solo impiccagioni. Tra 2.800 e 5.000 persone sparite nei sotterranei della Repubblica islamica: Amnesty International e Human Rights Watch parlano apertamente di crimini contro l’umanità. E non si tratta di un passato remoto.
Il suo erede, Ali Khamenei, ha continuato sulla stessa linea. Proteste represse nel sangue nel 2009 e nel 2022, attivisti incarcerati, donne picchiate per un velo portato male, dissidenti avvelenati o spariti. Il potere del Leader Supremo è stato costruito con metodi che poco hanno a che fare con la religione e molto con la repressione sistematica.
Il regime sotto pressione tra droni e crisi interna
Oggi Israele ha scelto una linea di deterrenza attiva: ha colpito a più riprese infrastrutture militari e nucleari iraniane, eliminando alcuni alti dirigenti delle Guardie Rivoluzionarie. Un messaggio chiaro: nessuno è intoccabile, nemmeno nei salotti ovattati del potere. E mentre i Pasdaran minacciano vendetta, il popolo iraniano continua a pagare il prezzo: inflazione fuori controllo, sanzioni pesanti, disoccupazione giovanile record. E una società civile che – nonostante tutto – continua a resistere.
Perché qualcuno sogna il ritorno dello Scià
No, non si tratta di restaurazione monarchica. Ma nella crisi dell’Iran teocratico, prende piede – anche se sotto traccia – una suggestione: la possibilità che emerga un leader più laico, più pragmatico, meno legato al clero sciita. Non è solo una fantasia da esuli. Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo Scià, è ancora attivo e gode di un certo seguito, soprattutto tra le nuove generazioni che conoscono la rivoluzione islamica solo per sentito dire – e ne hanno abbastanza. L’idea non è quella di un ritorno ai fasti imperiali, ma di una leadership forte, tecnocratica, magari autoritaria, ma non più ossessionata dal martirio e dal nemico sionista.
Successione Khamenei: tre scenari e un’incognita
L’Iran è a un bivio. Khamenei è anziano, malato, e non ha mai designato un successore credibile. Le possibilità sono tre:
1. Transizione pilotata: Un altro religioso – magari il figlio Mojtaba – prende il posto del padre. Ma senza carisma né legittimità, rischia di essere solo un reggente tecnico, esposto a faide interne e malumori popolari.
2. Svolta moderata: Un leader riformista – se mai ne resterà uno in circolazione –potrebbe tentare di aprire un canale con l’Occidente. L’ipotesi è debole ma non impossibile, specie se le pressioni internazionali diventassero insostenibili.
3. Caos generalizzato: La peggiore opzione, ma anche la più probabile. Lotta tra fazioni, crisi economica ingestibile, rischio di guerra civile, destabilizzazione dell’intera regione. Nessuno, nemmeno Israele, ha interesse a un Iran nel caos.
Israele osserva e aspetta
Tel Aviv non vuole un regime nuclearizzato, ma neppure una Siria 2.0 con armi atomiche e milizie incontrollabili. La caduta del regime teocratico sarebbe una vittoria, ma solo se accompagnata da una transizione ordinata e prevedibile. Per questo, il ritorno di una figura “alla Scià” – forte, secolare, filo-occidentale, o almeno non ossessionata dalla distruzione di Israele – non è uno scenario da fantapolitica. È uno sviluppo realistico che alcune cancellerie già iniziano a considerare.
La situazione attuale
L’Iran è intrappolato in una struttura di potere vecchia, repressiva e sempre più isolata. La sua classe dirigente ha costruito quarant’anni di dominio su una base di sangue e dogmi, ma quella struttura si incrina sotto il peso delle guerre, delle sanzioni e della stanchezza sociale. La fine di Khamenei non sarà solo una questione personale: potrebbe aprire una nuova fase per la Repubblica islamica. Non necessariamente democratica, ma forse meno fanatica. E per Israele – e il mondo – già questa sarebbe una svolta storica.