La guerra nascosta dei numeri: perché il bilancio reale dei caduti russi e ucraini resta il segreto più blindato del conflitto

In questa guerra ci sono segreti che durano poche ore e segreti che resistono a tutto. Il numero dei soldati russi e ucraini morti al fronte appartiene alla seconda categoria. Da quarantacinque mesi né Mosca né Kiev lasciano trapelare cifre credibili, mentre le intelligence occidentali, i centri studi e i giornalisti tentano da anni di ricostruire un dato che entrambe le parti trattano come materiale altamente classificato. Capire il perché è semplice: la dimensione della perdita umana avrebbe un impatto politico enorme, capace di incrinare consensi, strategie e narrazioni. E soprattutto rivelerebbe la vera scala della carneficina in corso.

L’unico luogo dove il segreto si incrina è nei cimiteri. In Ucraina, entrando dalla Polonia, il primo che si incontra è quello di Leopoli. Le bandiere dei reparti militari circondano tombe che si moltiplicano senza sosta: nel 2023 le sepolture dei soldati convivevano con quelle civili; poi hanno iniziato a tracimare, occupando ogni spazio disponibile. È un’immagine che da sola racconta la sproporzione che accompagna questa guerra: un fronte lungo mille chilometri e una città come Milano che, in termini di popolazione, sarebbe stata falciata secondo le stime più accreditate.

Tra queste c’è quella del Center for Strategic and International Studies, pubblicata a giugno: un milione e quattrocentomila tra morti e feriti gravi, un numero che ingloba un milione di russi, di cui un quarto uccisi, e circa quattrocentomila ucraini, con una forchetta tra sessantamila e centomila caduti. A queste cifre si aggiungono i dati riferiti dal presidente Donald Trump, secondo cui ogni mese ventimila russi e cinquemila ucraini verrebbero sacrificati sul campo di battaglia. Anche usando criteri minimali, il totale supera il milione e seicentomila tra morti e mutilati. Una distesa di vite spezzate senza paragoni nella storia recente europea

Sul versante russo, uno degli indicatori indiretti più significativi è arrivato dal Rosstat, l’ente di statistica nazionale. Le sue pubblicazioni hanno permesso alla testata indipendente Meduza di stimare tra 200 e 220 mila militari russi deceduti fino alla metà del 2025, ai quali vanno aggiunti altri trentamila o quarantamila dispersi le cui famiglie hanno avviato le pratiche giudiziarie per il riconoscimento del decesso. Dalla primavera scorsa, però, il Rosstat ha sospeso la diffusione dei bollettini rilevanti. Ciò che rimane sono le liste alternative compilate da Mediazona, Bbc News Russian e un gruppo di volontari, che hanno verificato 140 mila nomi attraverso necrologi e archivi online.

Sul fronte ucraino la mancanza di trasparenza non è minore. L’unico dato ufficiale resta quello diffuso dal presidente Zelensky nel febbraio 2025: “oltre 46 mila” soldati deceduti. Una cifra molto lontana dalle stime parallele emerse da Lostarmour.info e UALosses.org, che hanno individuato circa settantamila morti attraverso un lavoro sistematico sugli annunci funebri. A rendere ancora più complessa la valutazione ci sono gli ottantamila dispersi ucraini di cui non si conosce la sorte. Il blogger Yurii Butusov, vicino alle forze armate, ritiene che almeno trentacinquemila siano caduti. Un quadro che si intreccia con immagini che arrivano dal fronte: cadaveri lasciati all’aperto per giorni, a volte settimane, un livello di disumanizzazione tipico dei conflitti che assumono tratti quasi civili, dove l’odio reciproco cancella anche il rispetto per le salme.

A complicare la ricostruzione c’è il tema degli scambi di corpi. Dai negoziati di Istanbul sono tornati in Ucraina 6.057 cadaveri, mentre Mosca denuncia di averne ricevuti solo settantotto. Anche questa sproporzione suggerisce una realtà frammentata: parte dei dispersi potrebbe essere riuscita a fuggire all’estero, come indicano i 65 mila procedimenti aperti dalla giustizia militare ucraina per diserzione. In Russia il fenomeno esiste ma appare molto più contenuto: meno di ventimila casi, nonostante interi battaglioni siano stati annientati nelle offensive più cruente.

Uno dei fattori che ha cambiato radicalmente la dinamica della guerra è l’uso dei droni. Lungo la fascia di terreno compresa tra venti e quaranta chilometri dal fronte, migliaia di quadricotteri-killer rendono quasi impossibile muoversi. Fino a un anno fa gli attacchi riguardavano soprattutto i mezzi; oggi colpiscono direttamente gli uomini. L’ottanta per cento dei caduti di entrambe le parti sarebbe provocato dai velivoli teleguidati, secondo gli analisti locali. Il risultato è un’assenza pressoché totale di soccorsi: l’”ora d’oro”, sacra negli eserciti occidentali per stabilizzare i feriti, è diventata irraggiungibile. Le ambulanze vengono prese di mira, i barellieri sono bersagliati, e sopravvivere a un attacco significa soprattutto non essere stati visti da un drone.

Poiché è la Russia a condurre gran parte delle offensive, avanzando spesso senza ripari, le perdite più pesanti colpiscono le truppe di Vladimir Putin. Il comandante ucraino Robert “Magyar” Brovdi, considerato uno degli ideatori della kill zone, ha dichiarato che nel solo mese di ottobre i suoi operatori di droni hanno colpito 8.060 nemici, di cui 4.729 uccisi: “Ogni azione è documentata dai video”, ha affermato. Secondo analisti di Kiev, nei momenti più intensi Mosca potrebbe perdere trecento uomini al giorno, una stima che il ministero della Difesa ucraino porta a livelli ancor più alti nei suoi report, spesso marcati da toni propagandistici.

Alla fine emerge un quadro che lascia poche illusioni. Putin avrebbe già perso oltre 300 mila uomini, superando in tre anni i morti dell’Afghanistan sovietico e delle due guerre cecene messe insieme. Ma dietro la mostruosa contabilità c’è un’altra verità: la Russia dispone di una riserva demografica che l’Ucraina non ha. Con 33 milioni di maschi arruolabili contro i sei milioni teorici di Kiev, Mosca recluta trentamila volontari al mese, mentre l’Ucraina fatica a rimpiazzare le perdite. Persino le diserzioni potrebbero incidere meno dei numeri stessi. Il vero nodo, nella sua crudezza, è che il Paese con più uomini perde di più ma può permettersi di perdere più a lungo. Ed è forse questo, più dei territori contesi, il dato che le due capitali vogliono nascondere.