Così ChatGPT ti impedisce di scrivere del Garante della Privacy, la censura arriva online

Chat GPT di OpenAI

Provateci anche voi: scrivete un articolo sul Garante della Privacy, con nomi, date e contesto politico. Se lo fate usando ChatGPT, il sistema a un certo punto si bloccherà. Si fermerà di colpo, magari dopo due paragrafi. Un messaggio d’errore generico “errore nel flusso dei messaggi”, poi solo silenzio. Ci riprovi, ci riprovi. Ma succede di nuovo. Qualsiasi altro argomento va. Ma questo no. Ed è chiaro che c’è un blocco.

Me lo hanno segnalato e ho provato io stesso. A raccontare il caso che ha scosso l’Autorità per la protezione dei dati, Chat GPT non ci pensa neppure. Tre righe e stop, scatta l’errore. Provi a scrivere un altro pezzo, sport, economia, cronaca. Tutto ok, ma appena torni alla famigerata storia del Garante della Privacy, alt. Non si passa.

Il risultato? L’intelligenza artificiale più famosa del mondo decide che è meglio tacere. Alla richiesta di spiegazioni, l’Intelligenza Artificiale è reticente. Prima nega, poi di fronte all’evidenza di dieci tentativi non riusciti, fa le prime ammissioni. Dice e non dice, ma ammette il blocco. Spiegando che non si tratterebbe di un editto politico, ma di una regola nascosta: l’autocensura algoritmica. In pratica, il sistema “sceglie” di non generare testi che contengono riferimenti sensibili a figure istituzionali, inchieste o contenuti che somigliano a notizie già pubblicate da testate registrate. E di questo scandalo evidentemente si è parlato troppo in giro. Sarebbe quindi solo un eccesso di prudenza che, nel nome della legalità, finisce per cancellare la libertà di scrivere.

E questa in Italia, si chiama censura. Ai tempi passati c’era chi sbianchettava allegramente i testi per renderli illeggibili. Ora si blocca l’IA, con buona pace del diritto di cronaca sancito dalla costiuzione italiana. Il cortocircuito è servito: la macchina che deve aiutare l’uomo a comunicare si trasforma in un correttore morale. E l’argomento che non si può nominare – la privacy – diventa un caso da manuale di censura.

Proviamo a chiedere spiegazioni: l’IA ammette che si tratta di “filtri di sicurezza”. L’obiettivo, in teoria, è evitare la diffusione di dati sensibili. Ma nel caso del Garante, la situazione sfiora la satira involontaria: l’istituzione nata per tutelare la libertà e la riservatezza diventa la parola proibita per eccellenza. Le barriere di protezione non distinguono tra informazione e violazione. Se nomini un politico, un’inchiesta o un’autorità, l’algoritmo entra in modalità “prudenza assoluta” e congela il testo. Decide per te che è meglio non rischiare.

Gli esperti di etica digitale lo chiamano chilling effect, l’effetto gelo. Quando la paura di sbagliare è così grande da portarti a non dire più nulla. In questo caso, è la macchina a tremare, non il giornalista. Il software blocca, rallenta, taglia frasi o interrompe la scrittura. A volte basta un cognome, una sigla o un riferimento incrociato. E tutto si ferma.

Dietro la patina tecnologica, c’è una questione molto concreta: chi decide che cosa può essere scritto? Un algoritmo di sicurezza non ha senso del contesto, non conosce il diritto di cronaca, non distingue tra un’inchiesta giornalistica e un pettegolezzo. Per lui, tutto ciò che può sembrare “rischioso” va disattivato. E chi decide che cosa è rischioso? Cosa si può scrivere e non scrivere?

Nel mondo reale, però, il giornalismo si fonda proprio sulla possibilità di trattare argomenti rischiosi. Raccontare le istituzioni, le inchieste, i poteri. Anche quelli che, per definizione, non amano essere raccontati. Ed è qui che il paradosso esplode: per proteggere la verità, la macchina la nasconde. Perché se il software decide che un tema è “delicato”, il risultato è un’informazione sterilizzata, incapace di raccontare il presente.

In un mondo dove ogni parola passa da un algoritmo, scrivere del Garante della Privacy diventa un esperimento politico. È come bussare alla porta della censura senza che ci sia un censore in carne ed ossa. La tecnologia, nel suo zelo protettivo, finisce per imitare proprio ciò che dovrebbe evitare: il controllo del linguaggio.

Così, mentre la politica discute di trasparenza, fìdi guerra al giornalismo libero, i giornalisti si ritrovano a fare i conti con un nuovo tipo di silenzio. Non quello imposto dai governi, ma quello generato dal software. Un silenzio che non ha volto, non ha firma, e che per assurdo si accende proprio quando si pronuncia la parola “garante della privacy”.

Ma nel frattempo, la domanda resta sospesa: se un algoritmo può impedire di scrivere del Garante della Privacy, chi garantirà la libertà di scrivere in futuro di quello che vorranno passare sotto silenzio?