Negli scorsi giorni, durante il telegiornale di LA7, diretto da Enrico Mentana, i telespettatori aspettavano un evento mediatico dalla densità quasi tellurica: l’intervista di Mentana a Giorgia Meloni. Questo appuntamento televisivo si preannunciava come uno di quei rari momenti in cui la liturgia della comunicazione politica italiana lascia intravedere uno spiraglio di autentico confronto.
Un frangente in cui la prudente ritrosia della Presidente del Consiglio a frequentare arene televisive non perfettamente climatizzate, avrebbe finalmente incontrato la tradizionale veemenza analitica del direttore Mentana, solito fare interrogazioni puntiformi e incisive che, nel corso degli anni, hanno contribuito a edificare la sua fama di interlocutore implacabile. E invece, come spesso accade nei copioni eccessivamente attesi, la realtà ha avuto il buongusto – o la malizia – di contraddirli.
La scena, che si è presentata agli spettatori, possedeva una patina straniante, quasi l’impressione di assistere a una pièce teatrale in cui gli attori, pur mantenendo il proprio ruolo nominale, parevano animati da una diversa vocazione interpretativa. Mentana, solitamente pronto a sferzare l’interlocutore con domande tagliate al laser, pareva avvolto da un velo di cauta deferenza, come se un impercettibile scrupolo lo dissuadesse dal premere troppo l’acceleratore.
Quanto alle domande, esse apparivano levigate allo strenuo, fino ad apparire quesiti calibrati con un’attenzione così scrupolosa da risultare quasi inesistenti, prive di quel margine di frizione che, tradizionalmente, distingue un’intervista giornalistica da un esercizio di conversazione civile. Nessun affondo strategico, nessuna torsione dialettica, nessuna incursione nei territori più scomodi dell’attualità politica: un tessuto interrogativo che sembrava cucito su misura per non incrinare la compostezza della Presidente del Consiglio, la quale, prevedibilmente, ha potuto articolare le proprie risposte con una serenità disarmante, priva del benché minimo contraccolpo.
Lo spettacolo complessivo evocava, più che un confronto, un sofisticato passo a due, governato da una grazia cerimoniale. A tratti sembrava di assistere a un curioso rovesciamento del paradigma: Mentana, nella parte insolitamente remissiva dell’intervistatore conciliante, e Meloni nella veste dell’ospite rassicurata. Lo spettatore, abituato al Mentana combattivo, polemico, pronto ad alzare un sopracciglio per un ritardo, un’interruzione o un dato impreciso, si ritrovava improvvisamente dinanzi a una figura imbevuta di compostezza quasi timorosa, prossima più al cerimoniere che al cronista politico d’assalto.
Il risultato, per dirla con un eufemismo, non ha rispettato l’aspettativa. Si cercava la tensione, si è ottenuto il velluto. Si attendeva la domanda scomoda, è giunta la carezza retorica. Alcuni osservatori, con un sarcasmo non del tutto ingiustificato, hanno suggerito che Mentana, per una sera, abbia preferito deporre la lama giornalistica, lasciando così al suo ospite un’agibilità comunicativa pressoché illimitata.
Più che un’intervista politica, il confronto tra Mentana e Meloni è apparso come una conversazione educata e edulcorata, in cui la Presidente del Consiglio ha potuto avanzare senza ostacoli, e il giornalista, forse prigioniero di un eccesso di prudenza o di un’improvvisa stanchezza istituzionale, ha rinunciato a esercitare il proprio mestiere nella sua forma più alta.
L’intervista è parsa (per rendere più palpabile la distanza tra l’atteso e il reale) come se il Don Abbondio Manzoniano avesse preso il posto dell’Innominato: al vigore drammatico che ci si sarebbe aspettati si è sostituita una timidezza quasi notarile, un’aria di prudente circospezione che avrebbe fatto invidia al curato più pavido della nostra tradizione letteraria. La scena, lungi dall’evocare un confronto serrato, si è così trasformata in un garbato conciliabolo, come se il Mentana dei giorni migliori avesse deciso di abbandonare il campo di battaglia per rifugiarsi nella più rassicurante neutralità del chiostro.
E così, l’appuntamento che prometteva un’onda d’urto si è dissolto in una mitezza impalpabile: non il duello che molti auspicavano, ma una sorta di elegante parentesi, in cui la cronaca politica ha vestito, almeno per una sera, gli abiti un po’ sdruciti della diplomazia televisiva. In altre parole: più tè delle cinque (con abbondante zucchero) che rigore giornalistico. Una delusione tanto composta quanto eloquente.
di Ernesto Mastroianni







