Il centrodestra si è incartato. Sulla legge elettorale la maggioranza si è infilata in un cul de sac dal quale fatica a uscire, mentre lascia filtrare ipotesi che non le consentono, nei fatti, di sciogliere davvero il nodo. Dopo le elezioni regionali del 23 e 24 novembre in Veneto, Puglia e Campania, l’intenzione di mettere mano all’attuale sistema è stata ufficializzata dal plenipotenziario di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. La motivazione ufficiale è che con il Rosatellum, così com’è, nessuno sarebbe più in grado di vincere le elezioni politiche, dal momento che il centrosinistra oggi si presenta unito e quindi competitivo nei collegi uninominali.
Il segnale politico era però arrivato già prima. I risultati del voto in Puglia e Campania hanno confermato le simulazioni elaborate a febbraio dall’Ufficio studi dei gruppi di Fratelli d’Italia sulla base delle Europee 2024: con l’attuale assetto, il centrosinistra unito vincerebbe tutti i collegi uninominali dalla Linea Gotica in giù, oltre a quelli delle grandi città del Nord, conquistando così una potenziale maggioranza parlamentare. Da qui l’idea di eliminare i collegi uninominali e spostare il baricentro del sistema elettorale.
L’obiettivo politico di Giorgia Meloni è esplicito: costruire un meccanismo in cui gli elettori non siano chiamati in prima battuta a eleggere deputati e senatori, ma a scegliere direttamente il capo del governo. La premier è convinta della propria popolarità ed è sicura di poter battere chiunque nel campo avversario, si chiamino Elly Schlein, Giuseppe Conte o altri aspiranti leader. Da questa convinzione nasce il modello fatto trapelare a febbraio e ora confermato da Donzelli: un sistema che imita quello delle regionali, il cosiddetto Tatarellum, con proporzionale e premio alla coalizione che supera una soglia tra il 40 e il 42 per cento, accompagnato dal nome del candidato premier sulla scheda.
È proprio questo il punto su cui si è aperto lo scontro giuridico e istituzionale. Diversi costituzionalisti hanno definito questo impianto a rischio incostituzionalità. Un problema che si rifletterebbe direttamente sul Colle, perché significherebbe mettere il presidente della Repubblica nelle condizioni di non poter promulgare la legge. Uno scenario che porterebbe a una crisi istituzionale aperta. In questo quadro vengono letti anche i recenti attacchi del capogruppo di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, a un collaboratore del presidente Mattarella, dopo che era stato spiato nelle sue conversazioni private in un ristorante: un segnale politico interpretato da molti come un campanello d’allarme nei rapporti tra la maggioranza e il Quirinale.
È a questo punto che entra in scena il piano B suggerito dal presidente del Senato, Ignazio La Russa. L’idea è quella di allegare il nome del capo della coalizione alle liste al momento del loro deposito, come accadeva con il Porcellum, evitando così l’indicazione diretta del premier sulla scheda. Lo stesso La Russa ha spiegato che inserire il nome di Meloni direttamente sul simbolo potrebbe perfino danneggiare Fratelli d’Italia, inducendo alcuni elettori a non barrare il partito e facendo perdere voti di lista ed eletti.
Ma anche questa soluzione non mette davvero al riparo dal conflitto istituzionale. La guerra con il Quirinale si aprirebbe comunque se la nuova legge prevedesse un altro elemento palesemente contrario alla Carta, su cui il centrodestra ha ragionato a lungo prima di finire nell’attuale impasse: l’attribuzione del premio di maggioranza nazionale anche per il Senato. Un’ipotesi su cui il Capo dello Stato non darebbe l’assenso, così come fece Carlo Azeglio Ciampi nel 2005 sul Porcellum, che infatti prevedeva premi su base regionale. Ma una soluzione di questo tipo, non garantendo a nessuno una vittoria certa a Palazzo Madama, smonterebbe proprio la giustificazione addotta da Donzelli per cambiare il Rosatellum, cioè la necessità di assicurare un vincitore.
C’è poi un altro punto critico che pesa come un macigno: l’idea di attribuire il premio di maggioranza attingendo dai listoni nazionali, come avveniva nelle Regioni con il Tatarellum. La sentenza numero 1 del 2014 della Consulta, che bocciò il Porcellum, dichiarò illegittimi proprio i listini bloccati, perché non consentono al cittadino di scegliere il parlamentare e neppure di conoscere con esattezza i candidati reali. Non a caso, negli anni successivi, la maggior parte delle Regioni ha abrogato questo meccanismo dai propri sistemi elettorali.
Il paradosso è che tutte le strade esplorate finora dalla maggioranza portano allo stesso bivio: o garantiscono un vincitore certo, ma rischiano la bocciatura della Corte costituzionale e lo scontro con il Quirinale, oppure rispettano i paletti della Carta, ma non risolvono il problema politico che ha spinto Fratelli d’Italia ad aprire il cantiere della riforma, cioè la paura di perdere nei collegi uninominali con il centrosinistra unito.
Il risultato è uno stallo evidente. La volontà politica di cambiare le regole c’è ed è stata ormai rivendicata apertamente. Ma ogni soluzione che la maggioranza ha messo sul tavolo si trasforma in un boomerang istituzionale. La fretta di blindare una vittoria futura rischia così di trasformarsi in una battaglia ad alto rischio costituzionale, con il Colle chiamato inevitabilmente a intervenire.
Per ora, il centrodestra resta sospeso tra il modello Tatarellum, il ritorno mascherato al Porcellum e l’incubo di una legge che non reggerebbe al vaglio della Consulta. In mezzo, il Rosatellum continua a regolare il gioco. E il centrosinistra unito resta lì, come un convitato di pietra, a ricordare che il vero problema non è la legge, ma l’esito possibile del voto.







