Attaccato per aver detto parole di civiltà. Messo alla gogna per aver difeso i diritti. Usato come bersaglio per un’aggressione che dice molto di più su chi l’ha compiuta che su chi l’ha subita. È il caso di Simone Leoni, neo-segretario dei giovani di Forza Italia, e simbolo, suo malgrado, di un dibattito politico sempre più avvelenato.
Simone Leoni, giovane dirigente di Forza Italia, ha preso la parola durante un evento pubblico del suo partito per dire qualcosa che dovrebbe essere ovvio in una democrazia: che è vergognoso discriminare donne, migranti, persone LGBTQ+, e che le parole, specie quando diventano odio, possono ferire fino al punto estremo. Il suo intervento conteneva anche un chiaro riferimento al generale Roberto Vannacci, divenuto negli ultimi mesi un punto di riferimento per l’estrema destra, con posizioni spesso definite “controverse” ma che in realtà sono chiaramente discriminatorie.
Ma quella semplice presa di posizione, netta, civile, empatica, ha scatenato un putiferio. Leoni è stato travolto da un’ondata di insulti, attacchi personali, minacce. Fascisti di ogni derivazione, dai nostalgici in camicia nera ai leghisti di governo, passando per i cosiddetti “vannacciani”, hanno fatto fronte comune contro di lui. Non per un’idea estrema, ma per aver difeso valori di rispetto e inclusione.
Il punto più basso di questa vicenda è arrivato quando Il Tempo ha pubblicato una lettera firmata da Silvio Leoni, padre biologico di Simone, con il quale il ragazzo non ha mai avuto rapporti. Una lettera violenta, usata strumentalmente per delegittimarlo nel modo più meschino: sul piano personale e familiare. In quelle righe, il padre mai presente lo accusava di “non essere degno nemmeno di spolverare gli anfibi al generale Vannacci”.
Usare un padre, che di fatto è un estraneo, per demolire pubblicamente un giovane che ha semplicemente detto parole di civiltà è qualcosa che non ha precedenti nel dibattito pubblico recente. È un segnale di allarme: una certa destra sta non solo legittimando, ma anche promuovendo una cultura del linciaggio morale, dove chi si discosta dalla linea del capo viene annientato, anche con metodi che nulla hanno a che vedere con la politica.
Eppure, in questo clima tossico, Leoni ha risposto con parole esemplari:
«Pur avendo sofferto molto, ancora oggi non provo rancore per Silvio Leoni, con il quale non ho condiviso nulla dei miei 24 anni. E lo perdono per avermi attaccato senza conoscere me e i miei valori.»
Non si tratta solo di stile. Si tratta di un segnale importante: in un tempo in cui il dibattito pubblico è dominato da chi urla più forte, Simone Leoni ha scelto la strada della dignità, della compostezza, della fermezza dei valori.
La solidarietà che oggi molti, in tutta Italia, gli stanno esprimendo, non è solo personale. È politica, nel senso più alto. Segno che c’è ancora chi sa distinguere tra leadership e prepotenza, tra identità e odio, tra libertà e arroganza.
In un Paese dove si moltiplicano le voci che inneggiano alla discriminazione e allo scontro, il coraggio di Simone Leoni fa paura. Ed è per questo che va difeso. Perché oggi non è lui a essere in discussione: è il nostro grado di civiltà democratica.
Ernesto Mastroianni