Un boato nella notte. Fiamme e detriti davanti a una villetta di Campo Ascolano, il quartiere tranquillo a ridosso del litorale tra Roma e Pomezia. Due auto ridotte a carcasse: l’Opel Adam di Sigfrido Ranucci e la Ford Ka Plus di una delle figlie. Una deflagrazione che avrebbe potuto uccidere, e che riporta d’improvviso al centro dell’attenzione – con toni più cupi e concreti – il tema delle minacce ai giornalisti d’inchiesta.
Fra le piste sulle quali lavorano i carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati e la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, la più accreditata in queste ore è quella che porta alla ’ndrangheta: il giornalista è sotto scorta dal 2021 dopo l’emergere di intercettazioni su un piano di un narcotrafficante, legato a clan calabresi, che avrebbe commissionato la sua eliminazione. Ma la scenografia dell’attentato — l’ordigno artigianale ad alto potenziale, la sua collocazione davanti al cancello, l’assenza di telecamere nelle immediate vicinanze — non esclude altri mandanti o complicità locali.
Dai primi accertamenti emerge che l’ordigno era confezionato con polvere pirica pressata, oltre un chilo di esplosivo, e piazzato probabilmente tra due vasi sul marciapiede; gli artificieri propendono per un innesco mediante miccia, meno sofisticato di un timer ma non per questo meno letale. Se confermata, la potenza della bomba indica la volontà di inviare un messaggio netto: non più soltanto minacce verbali o buste con proiettili, ma un gesto in grado di terrorizzare una comunità intera.
Ranucci stesso ha ricordato, e lo ha fatto con voce ferma, la lunga scia di intimidazioni subite nel tempo: dagli atti di disturbo e dai pedinamenti fino al rinvenimento di proiettili calibro 38 davanti alla sua abitazione in passato. «Qui l’anno scorso sono stati trovati proiettili», ha detto riferendosi alla vicenda. E ha sottolineato un elemento cruciale: la scorta lo protegge in movimento, ma non presidia la casa; il confine tra tutela e vulnerabilità resta pertanto evidente.
La pista della ’ndrangheta torna alla luce anche per la natura degli ambienti citati nelle indagini: narcotraffico internazionale, rapporti con gruppi di destra eversiva e legami con reti criminali internazionali che in passato, secondo ricostruzioni giudiziarie e di cronaca, hanno utilizzato modalità violente per intimidire o eliminare avversari. Un narcotrafficante intercettato nel carcere di Padova era finito sotto la lente degli investigatori già per un presunto ordine di eliminazione di Ranucci, circostanza che aveva dato origine al programma di protezione rafforzato. Quel mandante è detenuto, ma i sicari — indicati come stranieri — non sarebbero stati identificati.
Eppure, il quadro non è lineare. L’ordigno, per l’apparente semplicità dell’innesco, richiama modalità usate anche in contesti di piccola criminalità locale o in azioni dimostrative di gruppi diversi dalla grande criminalità organizzata. Inoltre, nelle ultime settimane i rilievi dei residenti segnalano «scoppiettii» e fuochi che potrebbero essere stati prove o, in alternativa, episodi di vandalismo non direttamente collegati. Il semaforo pedonale dotato di telecamera, l’unico impianto a una cinquantina di metri, è ora al vaglio: gli investigatori sperano di recuperare immagini utili a capire movimenti sospetti nelle ore precedenti.
Il quadro investigativo guarda anche ai possibili motivi: Ranucci ha annunciato temi sensibili nelle nuove puntate di Report, puntate che trattano rapporti fra interessi economici, politica e organizzazioni criminali. Toccare certi equilibri può avere conseguenze, ma questo non basta a chiudere il cerchio delle responsabilità. Gli inquirenti sondano contatti, rivalità locali, ogni traccia che colleghi uomini e denari ai fatti.
Intanto lo Stato risponde: la Procura ha aperto un fascicolo per attentato e danneggiamento aggravato con l’aggravante del metodo mafioso; le indagini si svolgono in collaborazione con la DDA e gli artificieri continuano le analisi per ricostruire la chimica e la fattura dell’ordigno. La Rai e le associazioni di categoria hanno chiesto protezione e misure concrete per i cronisti esposti a rischi. Ranucci ha formalizzato la denuncia e annunciato che si presenterà all’Antimafia per integrare la sua testimonianza.
Sul piano umano, la vicenda ha un nodo doloroso: la figlia del giornalista era passata davanti all’auto pochi minuti prima dello scoppio. Il caso — se così si può ancora chiamare — ha sfiorato la tragedia. I familiari, accompagnati dalle forze dell’ordine, hanno abbandonato la casa per precauzione e la comunità locale è sotto choc; nei giorni scorsi alcuni residenti avevano notato movimenti e rumori sospetti, che ora la magistratura valuterà alla luce delle immagini e delle testimonianze.
Per ora, dunque, la presenza della ’ndrangheta rimane una pista concreta e sostenuta da elementi investigativi pregressi: intercettazioni, legami con il narcotraffico, la storia stessa delle minacce. Ma l’inchiesta deve ancora sciogliere molti nodi tecnici e fattuali prima di trasformare l’ipotesi in certezza giudiziaria. Se la matrice mafiosa fosse confermata, si tratterebbe di un’escalation grave e simbolica: colpire un volto del giornalismo d’inchiesta significherebbe lanciare una sfida diretta alla libertà di informare. Se non lo fosse, lo spettro dell’impunità e della capacità di chi semina violenza di camuffare la propria responsabilità resterebbe ugualmente inquietante.
La domanda che grava su queste ore — e che gli investigatori cercano di risolvere con cautela e determinazione — resta dunque duplice: chi ha voluto spaventare e perché? E, soprattutto, chi ha la forza e la motivazione per passare dalle minacce agli esplosivi, rischiando la vita di innocenti per il timore di chi cerca di portare alla luce verità scomode? Finché non ci saranno risposte, il dubbio resterà, pesante, sulla quiete del litorale romano.
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